4.1 Simple Minds – Sons and Sister sessions (+ exit)

Per la seconda volta in due anni la stagione fu aperta da un capolavoro dei Simple Minds! Anzi, più precisamente da due capolavori, o forse da un capolavoro e mezzo, ma andiamo con ordine.
Sembra incredibile come spesso, nel mondo del rock e affini, le cose si ostinino a prendere strane pieghe. Con Empires and Dance i Simple Minds si erano rivelati uno dei gruppi più validi della dark-wave britannica, il disco aveva venduto, era piaciuto tantissimo e, come capita spesso ai grandi, agli elogi aveva visto accompagnarsi critiche ed accuse (di cui la più assurda ed infamante fu di “consumatore di sostanze stupefacenti” lanciata a Jim Kerr). Eppure la casa discografica, la Zoom per la Arista, continuava a dare problemi. Probabilmente la Arista non credeva più nella sua stessa micro-etichetta, la (troppo?) coraggiosa Zoom, e stava mano a mano tagliando i budget. Insomma, l’Lp non veniva distribuito, nonostante il gran vociare che provocava un disco di quel tipo, e ciò teneva forzosamente basse le vendite.
I cinque fecero quindi guerra alla casa discografica, con un Jim Kerr inferocito che minacciava di sciogliere la band. Alla fine l’Arista li liberò dal vincolo contrattuale che li legava, rimanendo tuttavia proprietaria dei tre album fino ad allora pubblicati, al fine di ripagarsi dei debiti accumulati dal gruppo. Rimasti soli, senza produttore, manager né casa discografica, ai cinque il destino aveva però riservato un inaspettato colpo di fortuna: grande fan di Real to Real Cacophony ed Empires and Dance si era rivelato né più né meno che “sua maestà” Peter Gabriel, il quale assolutamente li volle come spalla al suo prossimo tour. Anche grazie alla nuova fama così raggiunta, non fu un problema per loro contattare nuove case discografiche, raggiungendo alla fine un accordo con la più coraggiosa delle indipendenti, così coraggiosa e di successo che stava ormai trasformandosi in una vera e propria major: la Virgin.
Quest’ultima, nell’aprile dell’81, assegnò alla band un produttore d’eccezione: Steve Hillage, famoso per il suo passato fricchettone con i Gong, ma attualmente grande estimatore dei suoni elettronico-teutonici di Neu e Can. Loro erano sempre loro: Jim Kerr ad una voce sempre più calda ed avvolgente, Charles Burchill ad una chitarra da trip lisergico meccanizzato, Michael McNeil ad una tastiera da incubo futurista, Derek Forbes ad un basso metronomico d’oltretomba, Brian McGee a tamburi industrial-tribali. Con Steve Hillage il feeling fu tale che negli studi di registrazione ebbero origine vere e proprie sessioni-fiume, ove la creatività sgorgava incontrollabile. Ebbene sì, furono le mitiche “Sons and Sister sessions”! Sessioni di registrazione così prolifiche che la Virgin dovette addirittura intervenire per interromperle e scartare aprioristicamente i brani giudicati meno interessanti (nel frattempo uno, The American, fu pubblicato come singolo a fine maggio). Tuttavia ne rimasero ancora moltissimi e lì per lì si decise di uscire con un doppio album.
Eppure la casa discografica intervenne ancora: i Simple Minds erano, a suo parere, un progetto ancora troppo nuovo ed audace per rischiare su di essi i costi di un doppio Lp. Si impose quindi una scelta: quali brani salvare e quali gettare “giù dalla rupe”? Nacquero liti e discussioni interminabili e la tensione fu tale che Hillage fu ricoverato in ospedale per “palpitazioni cardiache” e, purtroppo, dopo breve tempo, anche il batterista Brian McGee, stanco e stressato, lasciò la band.
Venne comunque selezionato un gruppo di brani giudicati migliori (chissà in base a quali criteri...) e finalmente, nel settembre del 1981, Sons and Fascination fu disponibile nei negozi. Tuttavia chi si affrettava ad acquistarlo veniva premiato con un secondo Lp, fratello (o, forse meglio, sorella) “minore” (?) del precedente, Sister Feelings Call. Come prevedibile, il successo di quest’ultimo fu tale che in breve tempo i due dischi vennero venduti separatamente come album a sé stanti.
Copertina modernissima, sfocata ed urbana per eccellenza, Sons and Fascination apriva con uno dei suoi numeri migliori: quell’ipnotica e paranoica In Trance as Mission che non faceva assolutamente rimpiangere i tempi di Empires and Dance! Il basso, ripetitivo all’angoscia, strutturava ritmicamente un brano che apriva, con chitarra e tastiere, a strane atmosfere quasi solari. Anche la voce... era sì bassa e oscura, ma stranamente dolce e comunicativa. Dura poco: cambio di accordi, scala discendente, «dream a dream a, courage of dreams, in trance as mission, in trance, trans-American» e avanti così nella ripetitività più oscura e alienante.
Poi, improvviso, uno scatenato ritmo funky. Una discoteca del futuro? Sì, ma urbana ed, anch’essa, alienante. Una danza elettronica, esistenzialista e a suo modo suo elegante, col bellissimo ritornello «Rolling and tumbling / ambition in motion / rolling and tumbling / she's sweating bullets» (rotolando e ruzzolando, ambizione in movimento, lei suda proiettili). Si tratta della viscerale Sweat in Bullet da cui sarà addirittura tratto un singolo (il terzo), un momento psico-tronico che però fa da preludio ad un primo… come dire? Raggio di sole? Momento di respiro? In effetti 70 Cities as Love Brings the Fall apre con un bellissimo accordo di tastiere, poi un suono elettronico assurdo, come un muggito, ad introdurre un cantato quasi normale, quasi ottimista. Per carità, non è un brutto brano, anche il ritornello sincopato è molto piacevole e il bridge che lo segue torna alle atmosfere oscure abituali, ma certamente i 5 dimostrano di cercare qualcosa di diverso. Il brano comunque è molto bello e straniante, potente eppure disperato, con quel suo stranissimo muggito…
Una percussione da incubo marziale fa ripiombare il disco in atmosfere torbide, benché il buon Jim Kerr tornerà ancora solare. Si tratta di Boys from Brazil, brano famoso per la sua melodia dolce e ripetuta mille volte, su un tappeto percussivo ossessionante. Il finale leggermente psicotico nobilita non poco. Poi il capolavoro commerciale, oltre che secondo singolo, dell’album: effettaccio elettronico ad introdurre un ritmo danzereccio irresistibile. La tastiera fa da ombrello ad una chitarra effettatissima e scatenata. Epico e maestoso Kerr attacca la bella melodia di Love Song, ballabile molto più elegante e meno esagitato, sebbene forse anche meno innovativo di I Travel. «Stay below, shout below, flesh of heart, heart of steel». Bravi!
Poi, delizia per orecchie elettroniche, l’atmosfera si fa sommessa e soffusa. Le tastiere regnano sovrane, benché non manchi una stranissima chitarra acidula in sottofondo (nella scelta dei suoni i Simple Minds erano maestri, soprattutto se coadiuvati da Hillage) e ipnotiche percussioni quasi caraibiche, su un lavoro di basso molto articolato e complesso. Si tratta di This Earth you Walk Upon: una melodia lenta, maestosa e ipnotica sui temi della fraternità degli esseri umani, che permette a cuore e cervello di viaggiare lontano. E che dire dell’emozionante assolo di chitarra centrale? Uno dei loro capolavori assoluti (e fors’anche sottovalutati). L’emozione va a sfumare.
Il disco procede con il brano omonimo, Sons and Fascination, decisamente un ritorno ad Empires and Dance. Un brano oscuro e difficile, mentale ed elettronico, coinvolgente e straniante come solo loro sapevano fare. Come a dire: “noi in questo siamo insuperabili, e non ci siamo traditi. Però stiamo anche cercando cose nuove”. Fortunatamente queste “cose nuove” non compariranno nell’ultimo brano dell’album, Seeing Out the Angels, forse non un vero capolavoro (è più ripetitivo che ipnotico), ma meravigliosamente sostenuto da una tastiera aperta, un basso pulsante in bella evidenza e una percussione bassa e leggermente ossessiva. L’oscurità permane, anche nella perdita di speranza del testo.
E, sempre fortunatamente, queste “cose nuove” non la faranno da padrone neppure sul contemporaneo Sister Feelings Call, che contiene brani assolutamente all’altezza dell’album gemello. Eppure fu fatto per apparire minore: copertina dimessa (stesso stile ma monocromatica), un brano in meno e due strumentali, di cui uno è semplicemente una reprise. Ma il disco si apre in maniera super-dinamica e danzereccia proprio con uno strumentale, Theme for Great Cities: una tastiera lontana, quasi in sordina, disegna la linea di accordi, poi fragorosa entra la sessione ritmica con la chitarra, per un irresistibile funky tecnologico del futuro. Una variante solare e aperta concede momenti di esaltazione.
Ottimo brano, ma Sister Feelings Call, ha ben altri assi nella sua manica. Parte infatti subito dopo un altro dei brani più famosi del periodo: il già sentito singolo The American. Cassa a martello, basso ancora funkeggiante (Derek Forbes era uno dei pochi tranquillamente paragonabili a Jah Wobble, il primo mitico bassista dei PIL), voce seria. Il ritornello ripete «uh, ameri- ameri- ameri- ameri- american», il ritorno è deflagrante. Il brano, nel termine, vira verso uno splendido assolo di chitarra elettro-funky, così incisivo e pungente da non avere pari della new wave britannica.
Ma non c’è il tempo di tirare il fiato, la successiva 20th Century Promised Land incalza col suo ritmo avvolgente e la sua tastiera cadenzata. Brano bellissimo, certo, però… anche qui emergono certe atmosfere… come definirle, epiche? Solari? Che in questo contesto possono anche andar bene, ma che purtroppo (e la maggior parte dei lettori lo sa benissimo) saranno la tomba dei Simple Minds già dal successivo lavoro discografico. Meglio il finale, percussivo all’angoscia. Ma certamente meglio sarà la successiva Wonderful in Young Life: ritmo nevrotico sul rullante, voce sotto, atmosfera nervosa ai limiti del fastidio, ma variante più rilassata e quasi riflessiva. Forse neanche in questo caso siamo di fronte al capolavoro, ma la serietà e il talento di Jim Kerr e soci fanno veramente impressione.
Ad atmosfere depresse si tornerà con la successiva, funerea League of Nations. Sì, l’atmosfera incede cupa ma sempre stranamente nervosa, tra stranianti percussioni elettroniche ed un orientaleggiante (e bellissimo) riff di sintetizzatore, supportato da un basso funky tanto rasente al fretless da far invida a Mick Karn dei Japan! Solo dopo un po’ entra la voce, bassa, solenne e tenebrosa. «League of Nations… relief! Relief! Relief!», null’altro, sembra quasi di sentire i Joy Division in salsa elettronico-tailandese. Questo brano meravigliosamente dark fu inspiegabilmente escluso dalla versione su Cd di Sister Feelings Call che, una volta di più, fu costretto a risultare secondario rispetto al “fratello maggiore”. Tuttavia lo spazio/tempo sul supporto ci sarebbe stato, quest’esclusione rimane dunque ingiustificata. Solo recentemente, nel 2003, la riedizione rimasterizzata su Cd renderà giustizia all’intero progetto.
Due brani chiudono il disco: il primo è il capolavoro Careful in Career, molto elettronica, ma col bellissimo riff chitarristico che la apre e la struttura, seguito dalla scala discendente di violoncello. L’atmosfera cambia spesso, conosce momenti deliziosi e diversi, ma elettronica e archi (forse sintetici) non tolgono mai al brano un’aria inquieta e sinistra. «Pouring in ecstasy / In performance or in ecstasy», in una delle performance (appunto) più intense di Kerr: «I’ve come so far already», ancora bravi! L’altro, Sound in 70 Cities altro non è che la versione strumentale di 70 Cities as Love Brings the Fall. Leggermente più lungo di quello cantato, il brano ne evidenzia la ricchezza dell’arrangiamento, oltre all’originalità spiazzante dell’assurdo muggito sintetico.

Insomma, le Sons and Sister sessions diedero origine ad una coppia di capolavori. Ed i Simple Minds conobbero le luci della celebrità. Col vento in poppa delle vendite degli Lp, per non parlare di quelle dei due singoli The American e Love Song, si trovarono un nuovo batterista e partirono in tour in Inghilterra, Canada e Australia (paesi in cui, addirittura, i due singoli avevano toccato i primi posti delle charts ufficiali).
E il vento del successo, della celebrità, della sicurezza soffiò anche nei loro cuori. Nel marzo del 1982 apparve il nuovo singolo, Promised You a Miracle, dall’ottimismo e dalla solarità ai limiti dello stucchevole: le “cose nuove” di cui sopra. Nell’estate di quell’anno il nuovo Lp, New Gold Dream (81, 82, 83, 84), che certamente non aprì la stagione dark. A molti appassionati della new wave inglese quel disco piacque ancora moltissimo, così intriso di elettronica suadente e affascinante. Secondo chi scrive, e secondo ogni dark che ami definirsi tale, a parte la title-track e poco altro il disco è da buttare: con gli stessi suoni faranno (leggermente) meglio nell’album dopo, Sparkle in the Rain.
Ma a parte il fatto che quello fu veramente il canto dal cigno, e la commercialità
(oltre all’inconsistenza artistica) dei lavori successivi non fece altro che dimostrarlo, ciò che fu veramente grave era la fine di un’epoca.
I Simple Minds dark erano definitivamente scomparsi. Peccato.


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