0.8 Kraut rock infernale

Curiosamente un genere “minore” degli anni 70, il cosiddetto kraut rock, diede origine alla musica tenebrosa di maggior valore del decennio, ben oltre le volgarità un po’ pacchiane di certo hard rock prima e certo heavy metal dopo. Nei primissimi 70 nacque in Germania (da qui il termine canzonatorio “kraut”) un’incredibile e fiorentissima scena di rock elettronico e/o sperimentale. Gruppi come i Popol Vuh ed i Can, per non parlare degli psichedelici Amon Düül, segnarono una vera e propria primavera creativa nella terra di Goethe, creando una scena che per inventiva ed innovazione non avrà più uguali. Molte di queste band, influenzate anche da certo pessimismo “cosmico” di molti filosofi tedeschi (da Schopenauer a Nietzche), indugiarono in toni depressi o finanche funebri, ma qui vogliamo focalizzare l’attenzione sull’opera della più tenebrosa (anche se effimera) di tutte loro: gli epigrammatici Faust, gruppo che si è meritato l’appellativo di “meno romantico del mondo”.
Nati nel 1970, dei musicisti si sa pochissimo, quasi neanche i nomi, a causa del loro estremo riserbo. Il primo disco del 1971 da subito libero sfogo alle loro boutade soniche, ispirate tanto da Zappa quanto dal cabaret brechtiano, ma intrise di una drammaticità ed una cacofonia tanto oscure quanto minacciose. Il “brano” (in realtà si tratta di una lunga suite musicale completamente sconnessa) capolavoro è Miss Fortune, con un inizio tribale e chitarre jazzate e psichedeliche. Segue un silenzio spettrale e poi una cantilena da muezzin accompagnata da un piano beffardo, in crescendo fino alla baraonda più tempestosa ed indistinguibile. Poi il tutto si placa, lasciando solo il canto di un pazzo e gli echi del corridoio della sua prigione (con un piano ancora più crudele). Dopo altra cacofonia, il tenero finale: due voci parlano una parola a testa, dal lancinante primo verso “are we supposed to be or not to be?”: probabilmente l’immagine più angosciante del rock tedesco.

Per altri due dischi i Faust non fecero (o fecero poca) storia. Il secondo, So Far (del ‘72) è molto meno esplosivo ed iconoclasta, sebbene forse non meno dissacratorio e “zappiano”, e comunque con la bella e paranoica It’s a Rainy Day. Il terzo fu una sorta di raccolta di primi demo, intitolato infatti Tapes. E’ il più raccomandato per chi ha amato il caos cacofonico del primo album ma, trattandosi appunto di prove, aggiungono assai poco al loro percorso artistico.
Molto più calmo e musicale sarà il quarto album (semplicemente intitolato Faust IV), del 1973. Ai fini del presente testo i brani più significativi sono la suite iniziale Krautrock (titolo decisamente autoironico) e la depressissima e tenue ballata Jennifer. Il primo, come si diceva, è una sorta di suite musicale simile (rispetto al resto del disco) alle loro prime sperimentazioni: una sorta di raga indiano emerge da una nota sepolcrale bassa e cupa, ma i suoni, magmatici e distorti, poco a poco crescono fino alla deflagrazione psico-sonica più devastante.
I Faust si scioglieranno subito dopo, totalmente ed assolutamente ignorati da pubblico e critica. Ma come per molti altri antesignani del suono oscuro (Velvet Underground o Nick Drake o ancora High Tide), le poche tracce della loro presenza ed i pochi sinceri appassionati della loro musica tenebrosa ne terranno vivo il culto, praticamente fino a costringerli a successive reunion e ad assegnar loro il posto che meritano nella storia del rock. Cioè quello di massimi cultori del cupo, esteti della paura e dell’orrido, del triste e del lurido.

Ma non sarebbe giusto concludere con loro il discorso sul kraut rock. Persino il gruppo di punta del genere, quei celeberrimi Kraftwerk che raggiunsero il successo internazionale con Trans Europe Express, hanno avuto un passato “depressoscuro”. Si ascoltino i primi due album (Krafterwerk I e II, entrambi del 70) per credere: cacofonie notturne, elettronica minimale e fatta in casa di suoni cupi e rumori molesti. Accelerazioni di tempo che creano angoscia, percussioni elettroniche dalla freddezza glaciale. Il quartetto tedesco autore di queste prime perle di desolazione era costituito da Ralf Hutter alle tastiere, Florian Schneider a flauto e violino e dai percussionisti Michael Rother e Karl Ginger.
Quando i quattro si separarono, i primi due iniziarono la fortunata carriera dei Kraftwerk “di successo” con il più armonico e solare, appunto, Ralf & Florian (1973); gli altri due fondarono i Neu. Inutile dire che furono proprio i due defezionari a dare il tono lugubre dei primi due album del gruppo madre, ascoltare i tre LP a nome Neu per credere: estremisti del rock nero-tecnologico, il duo ha creato un nuovo genere senza voce né tastiere (almeno per il primo album). Lunghe suite si succedono sinistre, composte principalmente di percussioni elettroniche di ogni tipo sovrapposte solo da feroci e ripetitivi “riff” elettrici. Un’esperienza devastante.
Ma gli stessi Ralf e Florian non rimasero immemori del loro passato tenebroso. Nel ‘77, praticamente all’apice del loro successo, su Trans Europe Express appunto, i Kraftwerk aggiunsero due perle nere: una di depressione catatonica ed una di ossessione tecno-robotica. La seconda preziosa canzone dell’album, The Hall of Mirrors, parla in tono catacombale, monotono ed ipnotico del nostro rapporto, quantomeno schizofrenico, con l'identità riflessa. Mentre la successiva Show-room Dummies è l’allucinata paranoia di manichini che prendono vita, novelli zombie tecnocratici. Due brani che reggono perfettamente il confronto con le migliori produzioni di stampo gotico, incoronando il gruppo ed il kraut rock tutto al ruolo di grande anticipatore non solo del dark in sé, ma anche di quella sua importantissima costola affermatasi nella seconda metà degli anni 80 e conosciuta come industrial.

 

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