0.7 Progressive gotico

Negli anni 70 venne chiamato “progressive” un più certo tipo di rock, evoluzione colta della psichedelia più “acida”, nel senso della lunga e libera improvvisazione. I musicisti erano estremamente dotati e le canzoni molto lunghe ed elaborate, che “progredivano” da uno stato d’animo all’altro, da un’atmosfera musicale ad un’altra. I campioni di questo genere, i Genesis, gli Yes, i King Crimson e tutta la c.d. scuola di Canterbury, erano così impegnati ad inanellare le loro perle complesse e romantiche da non badare molto al “lato oscuro” dell’animo umano, se non occasionalmente, in qualcuna delle tante atmosfere esplorate. Ci furono però due importanti eccezioni: i Van der Graaf Generator e gli High Tide.
Tra i massimi del genere, e gotici per eccellenza, i Van der Graaf Generator (nome di un vetusto variatore di tensione) erano la creatura del cantante/poeta/filosofo Peter Hammill. Voce angelica ma a tratti monotona, spirito inquieto, mente allucinata, Hammill sciolse il suo primissimo gruppo alla fine del 1968. Il primo disco a nome Van der Graaf sarà The Aerosol Grey Machine, del ’69, con una nuova line up in via di formazione: Hugh Banton all’organo, David Jackson a flauti e sassofoni ed il carismatico Guy Evans ai tamburi. Si tratta di un disco acerbo (la band non era ancora affiatata e la casa discografica dava problemi) capace comunque con Afterwards delle prime atmosfere adulte ed avvolgenti, per non parlare dell’inquietante e minacciosa Necromancer o del goticissimo e maestoso organo di Octopus.
Cambiata etichetta discografica in favore della Charisma (la stessa dei Genesis), il gruppo cominciò ad affondare il coltello nella piaga oscura, prima col bellissimo (sebbene ancora interlocutorio) The Best we Can do is Wave to Each Other, poi col decisamente più oscuro H to He Who am the Only One, entrambi del ‘70.
Il primo si apre con un brano che è tutto un programma: Darkness. Dopo un vento gelido, cori lugubri da oltretomba e quindi un piano vagamente swingato con contrappunto sinistro di organo. Successivamente fa il suo ingresso la voce di Hammill, prima in sordina poi enfatica, che conduce il brano verso una cavalcata da incubo, sui temi della scelta e della costrizione. Sarà una delle loro colonne live. In seguito il disco non seppe proporre molto d’oscuro: dopo la romantica Refugees, con arrangiamento per flauti e violini (e mellotron, ma vabé), le atmosfere si fanno sinistre con la minacciosa White Hammer. Ma si respira ancora quel po’ di enfasi giovanile, appena mitigata dai preziosi arrangiamenti dell’organista Hugh Banton. Più strana ed originale senz’altro la successiva Whatever Would… nervosa e instabile, meno Out of My Book, triste e romantica, dove tornano i flauti. Mentre per la finale After the Flood, ad un parziale ritorno di atmosfere minacciose si accompagna anche l’enfasi giovanile di cui sopra, sebbene ci sia un bellissimo ed allucinogeno finale.
Con H to He si fa decisamente più sul serio. La maestosa Killer (altro titolo programmatico) è in assoluto uno dei loro capolavori: una sorta di mostro marino voracissimo (divora persino sua madre), che proprio per questo impazzisce di solitudine. Poi le atmosfere si fanno inaspettatamente intime e introspettive, con la dolcissima House with No Door. E tali rimangono per la “doppia” The Emperor in His War-room, che presto progredirà verso le loro sarabande da incubo per organo e sassofono: un altro atroce dramma interiore di un efferato assassino. Ancora più lunga e allucinante, però, saprà essere la successiva Lost, anch’essa doppia, cioè divisa in due parti, due dances (In Sand and Sea ed In the Frost). Più di undici minuti per un incubo di solitudine, paura e desolazione. Atmosfere musicali che mutano (“progrediscono”) dallo scherzo (anche “fieristico”), alla meditazione, all’allarme, fino all’urlo psicopatico, nel soliloquio schizoide di chi (Hammill, ovviamente) è ormai oltre al limite della follia. E così con l’ultima Pioneers Over c: il pioniere si perde nello spazio e la sua richiesta d’aiuto può trasformarsi solo in un rabbrividente e allucinato grido d’angoscia.
Ma il capolavoro gotico del gruppo, ovvero il picco di psicopatia delirante, sarà ancor di più il successivo Pawn Hearts, del 1971. Giusto tre brani: il primo supera gli undici minuti, il secondo i dieci, il terzo addirittura i 23! La furibonda danza di Lemmings parla del suicidio di massa dei roditori, quando raggiungono un numero troppo elevato: allucinante metafora dell’uomo moderno nelle sue inumane città. Più lenti ed elegiaci i ritmi di Man-erg, il pianto sull’uomo che, al contrario del pioniere del disco precedente, è rimasto sulla terra per finire perduto comunque. E la danza psicotica esplode un’altra volta, ancora più feroce, ancora più allucinata. Il terzo lunghissimo capolavoro del disco, A Plague of Lighthouse Keepers (meraviglioso: una pestilenza dei guardiani del faro) è un complesso kammerspiel diviso in ben dieci parti. Il riff che domina l’intera suite, celeberrimo, comincia epico e struggente fin da subito e Hammill ci canta sopra impietoso e implacabile «I prophecy disaster». È solo l’inizio di una serie di paesaggi ora estatici, ora desolati, ora lirici, ora dilaniati, dove i Van der Graaf raggiungono il massimo della loro arte di eruditi cesellatori di atmosfere lacerate, buie, claustrofobiche, derelitte.
Successivamente il gruppo si sciolse e Peter Hammill diede alle stampe una serie di dischi solisti assolutamente non all’altezza delle vette raggiunte con i compagni. Nel 1975, quindi, i quattro si riunirono per dare alle stampe il bellissimo Godbluff: copertina nera, atmosfere gotiche e oppressive, solo a tratti melodiche, insomma il grande ritorno dei Van der Graaf Generator! Il gruppo, sia pur tra qualche melodia e talune indulgenze romantiche, proseguì su ottimi livelli almeno per un altro album, Still Life, mentre il successivo World Record sembra un pelo meno ispirato ed evidenti segni di stanchezza si possono scorgere sull’ultimo Quite Zone / Pleasure Dome, suonato per altro da una formazione profondamente rimaneggiata (fuori il sassofono e dentro un violino a tratti irritante). Nonostante il cantato sempre paranoico e minaccioso del leader, non riuscirono più (o forse non erano più interessati) ad essere il gruppo dell’urlo gotico e dell’angoscia psichiatrica per eccellenza.

Tony Hill alla chitarra e Simon House alla voce e violino, fondarono gli High Tide su un retroterra culturale, e di conseguenza un’intenzione poetica, molto chiaro: il mistero. Dai reperti ossianici al cinema dell’orrore, i due esoteristi progressivi si scatenavano in sinistre improvvisazioni musicali dando origine a brani lunghi e complessi dalle atmosfere sabbatiche, aiutati anche un po’ dalla voce di House, impostata sul modello di Jim Morrison.
Il primo album, Sea Shanties, è del 1969 ed è subito una dichiarazione d’intenti, con la prima funerea The Futilist Lament, epica, necrofila, voce morrisoniana, lunghe cavalcate di violino e chitarra intrecciati. Ancora più tenebrosa la successiva Death Warmed Up, un lungo strumentale con medievali armonizzazioni degli strumenti a corda, ora più cavallereschi, ora più danse macabre, con il continuo wha-wha della chitarra a fare da contrappunto acido. Più hard rock l’incipit della lunga Missing Out, anzi talvolta pare riecheggiare le gesta dei “compagni di genere” Jethro Tull, se non intervenissero le note lugubri cavalcate di violino e chitarra, intervallate da una parte vocale maligna ed inquietante. Nella conclusiva Nowhere un’atmosfera maggiormente ariosa e a tratti quasi jazzata, non riesce però a cancellare un vago senso di prolissità.
Senso che sarà sradicato l’anno dopo, quando gli High Tide ci proveranno ancora con un album omonimo, decisamente molto più strumentale. In pratica si tratta di tre lunghe suite che durano dagli 8 minuti al quarto d’ora. Un soffuso wha-wha introduce le prime note di violino della prima Blankman Cries Again, poi entra la voce (che come si è detto, ora è molto più rara) e prende il via una veloce ballata tra l’esoterico ed il ballo popolare. Anche la successiva The Joke è più varia ed ariosa ma solo a tratti, poi le atmosfere oscure prenderanno il loro posto insieme ad altre, anche romantiche. Un organo fa la sua solenne apparizione e somigliano quasi agli altri “compagni di genere” Emerson, Lake & Palmer. L’ultima e lunghissima Saneonymous sarà il compendio di tutta la loro arte: ora epica, ora medieval/popolare, ora lugubre ora solenne, una voce tra il sinistro ed l’empatico, una chitarra ed un violino uniti in sabba orgiastici.
Assolutamente ignorati da pubblico e critica, si scioglieranno tra l’indifferenza generale. Ma House, divenuto un remunerato session-man per più fortunate band (Third Ear Band e Hawkwind), negli anni 90 si vedrà quasi costretto a riformare il gruppo dalla pressione dei fan, moltiplicati nel tempo. E’ chiaro: sono stati i più colti e raffinati rappresentanti della musica misteriosofica e tenebrosa, e non solo per i cultori del rock.

E nonostante le perplessità dei più, è ora necessario aggiungere che anche i celeberrimi Pink Floyd, gruppo nato psichedelico ma successivamente assimilato alla compagine progressive, incisero almeno tre opere che da più punti di vista possono essere assimilate al dark. Toccato l’apice del successo col celeberrimo The Dark Side of the Moon (in sé un disco di ottimo progressive-blues, con un occhio di riguardo alla malattia mentale, ma non particolarmente notturno), nel 73-74 i quattro musicisti si trovarono vuoti, senza idee o composizioni nuove, solo una manciata di canzoni che per tema avevano il mondo animale. Ormai erano un gruppo più che collaudato, autori già di una decina scarsa di dischi, tra i capolavori della psichedelia futuribile/beat prima, poi più rilassata e sinfonica. Ora erano depressi e senza idee, un effetto tipico del prolungato consumo di droghe.
Sarà l’incontro casuale con il loro vecchio leader, il geniale chitarrista e cantante Syd Barrett da tempo vittima di un esaurimento nervoso causato dall’LSD, a dar loro una nuova motivazione compositiva. Il nuovo disco, Wish You Were Here, uscito nel ‘75 con un'assurda copertina avvolta in cellophane nero, non sarà solo figlio dell’elegia e del rimpianto dedicati al vecchio compagno ed amico. Nell’immagine del fallimento di colui che ha lasciato (il “crazy diamond” del brano omonimo) c’è tutta l’angosciante tristezza per loro che hanno continuato, solo per ritrovarsi prigionieri della “macchina” (Welcome to the Machine) e della droga (Have a Cigar). L’album, meravigliosamente elettronico e futuristico (ah, i sintetizzatori!), risulterà un concentrato di oscurità, rimpianto e depressione, decisamente anticipatore di atmosfere a tutti noi assai note.
Ma la crisi ripiombò sul quartetto, più feroce dei prima. La consapevolezza di essere artisticamente obbligati a superare le vette sublimi già raggiunte, unita alla ormai cronica mancanza di idee, stavano uccidendo i Pink Floyd. I quattro decisero infine di riarrangiare le canzoni a tema zoologico composte già qualche anno prima e mai comparse su Dark Side. È ovvio che il mood del quale erano ormai impregnati i musicisti influenzò moltissimo le atmosfere dei nuovi arrangiamenti e di tutto il nuovo album: Animals, del '77. Chi sono gli animali? Ovviamente gli uomini, che secondo Roger Waters (il cantante-bassista del gruppo, oltre che “filosofo” ed autore di tutti i testi) si dividevano in tre principali categorie: cani, pecore e maiali. Nelle tre lunghe suite ad essi dedicate (più due brevissime ballate di prologo ed epilogo) i sintetizzatori erano quasi scomparsi, ma le atmosfere risultavano ancora più depresse, cupe e opprimenti. Ripetitività ipnotiche, latrati inquietanti, vuoti di depressione: fu il secondo “disco dark” del gruppo.
Il seguito fu l’ennesima crisi creativa, che Water risolse componendo un doppio LP che parlava della sua vita, delle sue nevrosi e della sua alienazione. Insieme a qualche “dramma della follia” copiato dalle allucinanti litanie dei Van der Graaf Generator, The Wall recuperava qualche atmosfera più solare e più melodica, e fu un tale successo internazionale che il gruppo si ritrovò nella stessa situazione del dopo Dark Side. Fu sempre Waters, allora, a deciderne lo scioglimento: evidentemente ormai il quartetto aveva artisticamente dato tutto e gli era impossibile andare avanti a certi livelli. Ma prima di chiudere… l’epitaffio: Waters compose praticamente da solo il quinto ed il sesto lato di The Wall (Wright, il tastierista, se ne era andato, Gilmour e Mason, chitarra e batteria, risultavano quasi comprimari). Il disco, uscito con un certo ritardo nell’82, voleva essere l’amara constatazione dell’inutile sacrificio del padre di Waters, morto in guerra.
The Final Cut, il disco oscuro per eccellenza dei Pink Floyd, e non solo perché uscito in pieno periodo dark, tuttavia non sembrava neanche un disco loro, così poco interessato alla musica e così concentrato sui testi. Testi depressi e disincantati (tra i migliori Your Possibile Pasts, The Gunner’s Dream, Fletcher Memorial Home e Two Suns in the Sunset), che insultavano la Tatcher e la situazione politica internazionale, colpevole, agli occhi del bassista, di aver fatto della pace un enorme supermercato globale anziché un’occasione di crescita spirituale del mondo; anzi, era il supermercato stesso a giustificare le tante guerre che ancora si combattevano (e si combattono tuttora). Un disco vibrante di intensa poesia, molto ispirato ai cantautori oscuri del 70 (Cohen e Drake su tutti), dark anche nelle tematiche (eccettuato certo impegno politico, comunque alquanto morbido), probabilmente il meno capito del gruppo rock più famoso del mondo.
Dopo qualche anno, vinta contro Waters una dura battaglia legale, Gilmour e Mason rifonderanno il gruppo, ma la nuova musica maestosa e retorica sarà soltanto una pallida immagine della loro trascorsa gloria. Sarà ancora Waters, intervistato in merito alla bruttezza di un suo disco solista, a darne la migliore definizione con l’epigramma: “è sempre meglio infangare se stessi, che infangare il passato”.

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