0.6 Cantautori apocalittici

Il mainstream, il "flusso principale", quel genere dalle dolci melodie e dalle strutture rassicuranti, dal rock melodico della west coast (Eagles, Journey, Toto) a cose anche più politicamente impegnate (Bruce Springsteen), dai cantautori fino a veri e propri compromessi con il pop (il c.d. AOR o roccuccio da classifica). Eppure, tra la fine dei sessanta e l’inizio dei settanta, anche il mainstream produsse le sue perle oscure, per opera della “trimurti” dei cantautori apocalittici: Leonard Cohen, Nick Drake e Tim Buckley. Cantautori, sì, e pure melodici, ma dalla depressione tanto disperata quanto funerea.
Il primo e forse il maggiore di tutti, di sicuro il più lucido fu, anzi è Leonard Cohen. Ebreo canadese, poeta, personaggio incredibilmente schivo. A quarant’anni decide di mettere in musica alcune sue poesie: lo fa in modo semplice, voce e chitarra, rari altri accompagnamenti, solo occasionali voci femminili aggiunte.
L’album risultante, Songs of Leonard Cohen, del 1966, è un incredibile capolavoro. Melodie delicatissime e toccanti, sarebbe meglio dire strazianti, ma senza mai una traccia di lamentela o autocommiserazione. In compenso, però, un pessimismo nero e depresso che impregna ogni cosa. La prima, Suzanne, forse il capolavoro di Cohen, parla di una donna matta eppur desiderata, di.un desiderio represso ed inconfessabile (you touched her perfect body with your mind), accompagnato da lirica e dolcissima depressione, così come la lunga ed ipnotica The Stranger Song. O ancora l’altrettanto lunga e commovente Sisters of Mercy (nessun riferimento è casuale), dove viene mantenuta fino in fondo l’ambiguità del nome, che può definire un ordine religioso o in genere le prostitute. Più allegra ed arrangiata, So Long Marianne precede l’altro capolavoro di depressa dolcezza Hey, That’s no Way to Say Goodbye e l’anima sprofonda fra pieghe segrete. L’autobiografica (come tutte, del resto) Teachers contiene il famoso verso «some girls wander by mistake».
Piacevolmente sorpreso dall’insospettabile successo internazionale del disco, tuttavia non più disposto di prima a “darsi in pasto” a media e mondanità, Cohen ripeté la stessa formula un anno dopo, dando alle stampe l’immortale Songs from a Room. In effetti la formula è proprio la stessa (i due sono, a tutti gli effetti, dischi gemelli), con aggiunta di spartanità per la copertina in bianco e nero e di un’ulteriore dose di depressione. Quello che purtroppo sembra mancare è l’incantevole magia delle melodie, qui non meravigliosamente riuscite come nel titolo precedente. Tuttavia non mancano i capolavori: una versione devastante di The Partisan (con canto femminile in francese, da pelle d’oca), unico brano non suo, lo sberleffo libertario di Bird on the Wire, l’angoscia allucinante di Story of Isaac (il sacrificio più famoso della Bibbia raccontato con gli occhi della vittima), la pacata invettiva interpersonale di You Know Who I Am.
Il successo internazionale lo spaventò un poco e lo convinse ad allontanarsi dalle scene. Da allora i suoi dischi furono sempre più rari e tuttavia non sempre ugualmente ispirati. Troppo politicizzato, ad esempio, appare il successivo Songs of Love and Hate, del ‘71, con canzoni molto lunghe e forse anche un peletto pretenziose. Tuttavia ci sono due suoi capolavori assoluti: Famous Blue Raincoat (in grado di gareggiare con Suzanne) e Joan of Arc (un altro sacrificio, stavolta pubblico e, più che visto, trasfigurato dalla vittima), per non parlare della sadomasochistica Avalanche che tanto piacerà a Nick Cave.
Dopo il sentito live di rito, del ‘73, più convincente risulterà essere l’anno dopo New Skin for the Old Ceremony. Le melodie si aprono ad atmosfere più aeree, anche gli arrangiamenti risultano leggermente più vari. L’angoscia di una vita di coppia vista come casa abitata da fantasmi in Is This What you Wanted, ancora dolcezza dei primi tempi con Chelsea Hotel #2, nuova energia con Lover Lover Lover, poi l’(auto)ironica Field Commander Cohen, infine le bellissime There is a War e Who by Fire. Copertina alchemica, melodie gaeliche, testi importanti, una voce che cominciava a scaldarsi e che, con gli anni, avrebbe portato Cohen ad interpretare le tonalità più basse e profonde del cantautorato internazionale.
Successivamente la vena sembrò abbandonarlo. Una brutta storia con Scientology, pochi dischi, due per l’esattezza, molto brutti: Death of a Lady’s Man e Recent Songs. Tornerà ad ottimi livelli solo nel 1984, con Various Positions, leggermente più compromesso con le melodie dominanti, quindi decisamente meno depresso. A quanto risulta è tuttora attivo: il suo ultimo disco, Ten New Songs, è del 2001. È stato uno dei massimi cantautori americani, creatore delle melodie più toccanti e depresse e dei testi più poetici (ed intelligenti). Tuttavia ha fallito miseramente ogni volta che ha creduto toppo in se stesso, ovvero quando troppo si amava o prendeva sul serio.

Caratterialmente (e melodicamente) simile, ma dalla personalità molto più fragile, Nick Drake fu autore di tre bellissimi dischi fra il ‘69 ed il ‘72. Inglese, nato a Burma, studentello a Cambridge, con il primo Lp, Five Leaves Left, si inserì nel filone allora di grido del folk revival. Le sue carte emergono sin da subito, in tutto il loro splendore: una voce tenue e delicata, ma incredibilmente matura, a comporre acquarelli intimi e fatalisti. Spesso una disincantata depressione fa capolino tra queste perle diafane, rendendole vibranti fino ai brividi. È il caso di Three Hours o di Cello Song, mentre brani come Way to Blue o Fruit Tree mettono in luce addirittura una sorta di pessimismo cosmico, alla Tim Buckley. Un caso a parte lo costituisce la splendida River Man, trascendente e psichica, cosmica ed onirica fino all’alienazione.
L’album dopo, purtroppo, fu il frutto delle pressioni dei produttori. Bryter Lyter (1970), infatti, contiene troppe canzoni “solari” e troppi arrangiamenti jazzati, caratteristiche che tendono a tradire (e contraddire, se non addirittura a sovvertire) la delicata intimità dei suoi brani. Fortunatamente non mancano felici eccezioni, che impreziosiscono un disco altrimenti da trascurare. La terza, ad esempio, At the Chime of the City Clock ha una bellissima strofa base intima e avvolgente (la voce di Drake è comunque ancora più calda e matura di prima), tuttavia un ritornello troppo melodico la rovina un po’. Molto meglio la successiva One of these Things First, dalla lievissima depressione quasi sognante, quasi adolescenziale, similmente alla successiva Hazey Jane 1. Dopo la strumentale title-track fa capolino la bellissima Fly, paragonabile alle sue prime cose. Successivamente sarà la penultima Northern Sky a dare momenti di introspezione triste ma mai autoindulgente.
Poi qualcosa successe nella vita di Nick Drake. Un travaglio esistenziale devastante, che l’ha portato sull’orlo di una depressione senza ritorno. Molte canzoni, brevissime, furono composto in questo periodo; quasi non arrangiate, giusto una chitarra classica ed un piano. Undici di queste andarono a comporre il suo ultimo album, il breve Pink Moon, del ’72. Sono i brani più scarni e belli del genere a comporre questo capolavoro di depressione cosmica: la title-track, Road, Which Will, Know, Parasite. Ballate catatoniche ed attonite, di una dolcezza struggente, di un pessimismo sconsolato e schiacciante. Fino alla “parabola terrificante sulla solitudine in mezzo alla folla” (così lo Scaruffi) di Things Behind the Sun, dove il punto di non ritorno viene ampiamente superato.
Infatti poco dopo seguirà il suicidio del cantante (o morte accidentale per eccessiva assunzione di anti-depressivi, come recita la versione ufficiale dei fatti), nel ’74 per la precisione, fra l’indifferenza o al più l’incomprensione generale. Aveva 26 anni. Il rimanente del suo funereo repertorio fu pubblicato nell’87 sull’Lp Time of No Reply, un disco forse ancora più bello e spettrale di Pink Moon (tra le perle la title-track, Clothes of Sand e Black Eyed Dog). A testimonianza di un genio incompreso di proporzioni titaniche, forse il primo vero autore di apocalyptic folk, sebbene sempre in chiave intima, appena lievemente romantica e strettamente personale.

Dal più fragile dei tre al miglior musicista e cantante. Partito, in realtà, in linea con gli altri due, con il primo omonimo album Tim Buckley si dimostrò un folksinger di maniera. Decisamente meglio il secondo, Goodbye and Hello del 1967 (Tim aveva appena vent’anni) che, oltre alla scoperta di tastiere e percussioni, annovera tra i capolavori del genere.
Originario di Washington ma presto trasferitosi prima a New York, poi  a Los Angeles, questo ragazzone timido, schivo ed estremamente sensibile (quasi alla nevrosi) trasferiva su disco le mille sfumature della sua psiche, aiutato dal poeta Larry Beckett che scrisse per lui alcuni dei suoi capolavori. Tra queste cominciò ad affiorare certa malinconia, a tratti anche depressa, soprattutto in bellissime e delicatissime canzoni come Carnival Song, tempestata di organetti fieristici o Hallucinations decorata di lontani e stordenti effetti psichici. Ma i capolavori non sono finiti: Once I Was, ballata country con armonica delicata fino all’ossessione o la meravigliosa canzone d’amore Phantasmagoria in Two, dal ritmo vivace ma dalla voce straziante. La riservatezza maestosa di Morning Glory chiude un album quantomeno rivelatore.
Il successivo Happy Sad (1968), il primo senza Beckett, testimonia di un personaggio selvaggiamente preda delle droghe. Le canzoni, ora solo sei, mantengono più o meno la struttura tradizionale (country), ma gli arrangiamenti si fanno più audaci e jazzati e due brani superano addirittura la soglia dei 10 minuti. Anche la voce è diversa: ora sono gli shouter neri i suoi maestri e Tim dimostra delle qualità vocali quasi inarrivabili. Il disco, tuttavia, è ancora interlocutorio, tra il delicato cantautorato tradizionale del precedente e le sperimentazioni funamboliche dei successivi. Non mancano comunque capolavori, come la terza Love from Room 109, un brano quasi da Goodbye and Hello ma trattato e diversificato (dura più di dieci minuti) fino a farlo sembrare proto-progressive (come del resto era la peraltro poco convincente title track dell’album precedente). Dream Letter è un’assoluta perla di delicata e devastante depressione, per xilofono e violoncello; da brividi. L’ultima Sing a Song for You è ancora più delicata e dimessa nelle sue fragili armonie, ma il capolavoro del disco è la penultima e stranamente energica Gipsy Woman. La voce inizia in sordina, ma poi il ritmo incalza, le percussioni avvolgono e stimolano. E parte l’orgia, tribale, irresistibile, colonna sonora di 12 minuti per danze selvagge ed accoppiamenti bestiali.
I tre dischi successivi sono altrettanti capolavori assoluti e la loro descrizione richiederebbe troppo spazio. Lasciamo quindi al lettore il piacere di assaporarseli poco a poco, alla scoperta di questo autentico genio, tanto incompreso al suo tempo quanto immortale per i posteri, dando di essi solo accenni sommari. L’amarezza estrema di Dream Letter caratterizza quasi tutto Blue Afternoon (1969), dei tre il più interessante per un pubblico dark, impregnato com’è del pessimismo cosmico del suo autore. Tra i brani imperdibili I Must have been Blind e Chase the Blues Away. L’effetto della droga invece marchia indelebilmente Lorca: 5 lunghissime canzoni, scale armoniche assurde ed innovative, tra il jazz e la sperimentazione, con la voce a proporre i voli pindarici più azzardati (Buckley è stato di sicuro il miglior cantante della sua epoca). Da segnalare, come perla assoluta, la delirante Driftin’. Starsailor, infine, fu il passo estremo di una mente unica e devastata. Sarabande soniche jazz e disarticolate, dissonanti e complesse, un delirio cosmico e incompiuto della solitudine, poiché anche la sua tragedia rimane incompiuta (come esempio si senta The Healing Festival). La perla del disco, però, sarà una vecchia canzone del ’68, la magica Song to the Siren.
Poi fu il crollo. Due anni di riposo per tentare la disintossicazione, un disco di assurdo e arrogante rhythm & blues (Greetings from L.A., 1972), brutto ma sempre migliore delle due opere assolutamente insulse che lo seguirono. E che anticiparono il suo suicidio per overdose, a 28 anni, nella solitudine e nell’incomprensione più assoluta.
Cantante e musicista dotatissimo, Tim Buckley si è in qualche modo presentato all’opposto del concittadino e contemporaneo Jim Morrison, anch’egli tuttavia molto influenzato dal blues e da desueti registri vocali: dove quello era pubblico, istrionico e sciamanico, lui fu privato, schivo e mistico. Eppure anch’egli si calò (e con maggiori capacità) nel nero più assoluto dell’anima umana. Purtroppo con un pari, tragico epilogo.

 

 

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