0.4 Nico

La grande profetessa dell’angoscia, la vera anticipatrice di tutto il genere dark (ed anche oltre) fu però Nico, la teutonica (e bellissima) prima chanteuse dei Velvet Underground.
Tuttavia, data la sua bellezza, l’industria discografica cercò dapprima di relegarla al ruolo di “bambolotta” della canzonetta, bellona che canta cose amorose, melodiche e melense come il mercato si pensava richiedesse. Lei poi, scoperta da Coco Chanel (era stata una sua modella) e comparsa nella Dolce Vita di Fellini, amante di Brian Jones, di Alain Delon (da cui ebbe un figlio, Ari), si mormora pure di Jim Morrison, protetta da Andy Warhol e quindi amante di Cage, ben rappresentava la cultura e lo spettacolo del suo tempo.
Ma il primo 45 giri (assolutamente irrilevante) ed il primo LP furono due meschine operazioni commerciali. Infatti Chelsea Girl, questo il titolo dell’LP, risulta un disco pesante, inascoltabilmente melodico, infarcito di pezzi facili e romantici e comunque non suoi. Oltre al diciassettenne Jackson Browne (un altro suo amante?), chi scrisse la maggior parte delle canzoni furono i suoi compagni di gruppo John Cale e Lou Reed: il disco è infatti contemporaneo al debutto del Velvet. Ma composizioni pensate per le scorribande chitarristiche o gli archi distorti dei due geni, furono orribilmente arrangiate con flauti e violini, creando una sorta di effetto caramelloso generale. Si salvano 3 pezzi: Winter Song per la tristezza nervosa che ancora riesce ad esprimere, Chelsea Girls, melodica, pletorica ed eccessivamente ripetitiva ma salvata dalla grande interpretazione di Nico, e soprattutto It Was a Pleasure Then, l’unico pezzo in cui lei compare come co-autrice. Si tratta di un lungo raga dissonante, completamente diverso dalle rimanenti atmosfere del disco, un oscuro rituale esoterico che si snoda inquietante per 8 minuti.
Mollati i Velvet, mollato Andy Warhol, mandata al diavolo la casa
discografica ed i loro esperti di marketing, Nico, in coppia con Cale, poté finalmente dimostrare il suo valore e le sue impressionanti capacità espressive. The Marble Index, uscito nel 1968, è un disco che per i tempi ha del miracoloso. Atmosfere dilatate, senza ritmo (nessuna percussione) e (quindi) senza tempo. Lawn of Dawns crea subito un’atmosfera dissonante e spettrale, l’harmonium di Nico accompagna da lontano con una nenia desolata il suo cantato quasi recitato. Archi rinascimentali introducono invece No-one is There, dove la sua voce può finalmente librarsi epica. Ari’s Song, teneramente dedicata al figlio lontano, comincia con una stridente nota di flauto accompagnato da un potente organo. Nico canta una melodia, ma è così soverchiata dalle dissonanze soniche dell’ambiente musicale allucinante che Cale ha concepito, da renderla stranita e straniante. Così è la sua voce distorta su Facing the Wind (dove un piano assurdo accenna a qualcosa di simile alla percussione), mentre la melodia medievale ed algida di Frozen Warnings, col suo accompagnamento continuo e inarticolato, crea una tensione gelida e allarmante. Un clavicembalo ossessivo sostiene l’ultima Evening of Light, fino al finale rumoristico ed apocalittico.
Una bella critica così commenta questo capolavoro europeo in terra americana: “gotico fino all’esaurimento nervoso, il disco non indulge però mai nell’horror. Se è vero che ogni lied è una piccola danse macabre, è anche vero che Nico la strania infarcendola di eventi sonori come carillon, giostre, organetti e dissonanze astratte”.
Ma Nico ha un carattere tutt’altro che facile (e comunque la sua non è musica che si vende nel breve periodo) e due anni dopo, nel 70, uscirà con il suo nuovo lavoro presso un’altra casa discografica ancora. Ora fila con un giovane film-maker indipendente francese, certo Philippe Garrel, ma Cale è sempre disposto ad aiutarla e suggella con lei anche questo nuovo tenebroso lavoro: Desertshore.
Un disco ancora più minaccioso, la sua voce si staglia gelida, potente e tenebrosa quanto mai a dipingere desolati paesaggi di alienazione, spesso accompagnata dal solo harmonium. L’effetto è ancora più lugubre ed ossessivo del disco precedente: Janitor of Lunacy, uno dei suoi cavalli di battaglia, suona come un monito dall’oltretomba, mentre quasi beffardo sembra il piano che accompagna la parte finale di The Falconer, concedendo al pezzo un attimo di serenità. L’angoscia torna prepotente con la solitudine vocale (e corale) di My Only Child, non abbastanza temperata da una tromba occasionale e lontana. Allucinante Le Petit Chevalier, recitata da un bambino in tono inquietante, mentre una viola da cabaret espressionista, presto accompagnata dall’ossessivo harmonium, ipnotizza nella successiva e teutonica Abschied. Una martellante e lontana nota di piano scandisce la nenia paranoica di Mütterlein ed accompagna epicamente all’ultima All that is My Own, una struttura più riconoscibile, ma non meno sinistra e maestosa, che però rende un po’ di pace all’ascoltatore esaurito e straniato. Un disco più melodico, tutto sommato, ma per un’esperienza certo non meno catartica.
Poi Nico sparisce, come spesso sarà abituata a fare. Passerà tre anni a fare da attrice per i film underground di Garrel. Solo dopo tornerà in sala d’incisione, una volta trovata un’altra casa discografica.
È una sfinge dall’oltretomba quella che intona le lunghe note maestose e spettrali di It Has not Taken Long, il primo brano di The End, il nuovo lavoro uscito nel 74.
Inquietanti cori di bambini, che intonano un gelido “la la la” su di un accompagnamento afono e disarmonico, arrivano a far accapponare la pelle. Ed è ancora lei: la nera sacerdotessa di bislacche filastrocche minacciose (Secret Side), solenni messe nere (You Forget to Answer), o di cerimonie a dir poco funeree (We’ve got the Gold).
Ma lo stupore diviene sbigottimento con il successivo omaggio alla fine, alla morte e/o al morto per eccellenza, Jim Morrison: una cover di The End, appunto. Ormai Nico è un’oscura star certamente alla sua altezza e di star si circonda: John Cale è sempre lì, polistrumentista e produttore, Phil Manzanera (il celebre chitarrista dei Roxy Music) alle poche chitarre elettriche, e Brian Eno per sintetizzatori e disturbi elettronici. Un dorato isolamento artistico in cui la nostra, ormai eroinomane, si rinchiuse per anni. The End è visto da molti critici come il suo ultimo capolavoro, sebbene questa non sia l’opinione di chi scrive.
Scomparsa dalle scene, ormai esclusivamente attrice underground per il solo Garrel, si dice totalmente in balia della droga, finché pure con il regista le cose finirono.
Con l’esplosione della scena dark fu riscoperta dal bassista corso Philippe Quilichini, con il quale produrrà il bel singolo Vegas/Saeta (the Line), uscito nell’80 e successivamente un LP, di cui dirà: “il disco s’intitola Drama of Exhile perché così è diventata la mia vita: un dramma dell’esilio.
Sono diventata completamente estranea a me stessa”. Ma qui si entra nel vivo della storia del dark, di conseguenza la materia verrà trattata nella sede opportuna.
Il più grande merito di Nico e della sua “trilogia oscura” The Marble Index, Desertshore e The End, è stato comunque quello di aver inventato un nuovo tipo di rock, che di questo genere aveva ben poco. Definita la Marlene Dietrich del rock, in realtà il suo è uno stile astratto e senza tempo, di melodie eterne ed immobili. Ha saputo pescare tanto dalla canzone melodica tradizionale quanto dal raga indiano, dalla cantata medievale quanto dalla musica “spirituale”, araba o gregoriana, inventando un suo stile poliglotta ed inquietante.
Il tutto per poter parlare, nel modo più lacerante possibile, delle sue e delle nostre ombre interiori, irrisolte e sconosciute.

 

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