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The CURE 
Live @ Avicii Arena   – Stoccolma, 10 ottobre 2022

Testo e foto
Gianmario Mattacheo

 

Finalmente.
Solo così, in effetti, potevo iniziare questa recensione. Era tutto già scritto, ma ti accorgi, una volta di più, quanto tutti gli articoli pubblicati, tutti i concerti visti, tutti i dischi ascoltati, si riducano ad un unico momento: questo.
Quel “See you soon” pronunciato nell’ultima tappa del tour del 2019 diventò prima una speranza da coltivare nei momenti più bui e poi un qualcosa da esorcizzare.
Ed eccoci qui, allora, a riprendere quel filo, in effetti mai interrotto, almeno nei cuori dei fan.
Presso l’avveniristico palazzetto della capitale svedese, i Cure sono anticipati (e lo saranno per tutte le date) dai Twilight sad, band scozzese, ormai entrata nelle grazie di Robert Smith. Ritrovo i ragazzi dopo averli visti poco meno di una decina di volte durante il tour dei Cure del 2016, apprezzandoli sempre di più, sia musicalmente, sia come presenza scenica.
Ma torniamo a noi, perché due sono le novità quest’anno; ovvero l’imminente uscita del nuovo album e il ritorno in formazione di Perry Bamonte, il cui ultimo concerto con i Cure risaliva all’ormai datato 2004.
Questo di Stoccolma è il terzo concerto di un tour che vedrà la conclusione a Londra in dicembre, mentre esibizione dopo esibizione, diventa sempre più concreta la realizzazione del nuovo album; non solo più voci o rimandi, ma nuove canzoni presentate in anteprima.
E, quindi, è riservata alla nuova “Alone” l’onere di aprire le danze, per un incipit di show (ma crediamo anche dell’imminente lavoro in studio) che trasuda di profondità e, stessa cosa, dicasi per “Endsong” e “And nothing is forever”, oggi in anteprima assoluta.
E sono proprio la profondità e l’intensità dei concerti che saranno il leit motiv di tutto il tour, in cui gli spazi ai balli e ai giochi vengono relegati solamente per i bis finali.
È una pattuglia ormai numerosa quella dei Cure, divenuti un sestetto che riempie totalmente il palco e capace di produrre un suono così pieno e carico da consentire pause alla sei corde di Robert Smith, salvo quando il capo decide di tornare in scena per incidere alla sua maniera, ovvero aggiustando il tutto con pennate da direttore d’orchestra.
È questo un racconto che vuole vivere più sulle sensazioni che sulla mera cronaca musicale (per quello avremo modo di sbizzarrirci da qua a Londra), ma un certo aperitivo è pur giusto presentarlo.
Così, del mainset, “Pictures of you” e le altre di “Disintegration” hanno non solo una resa sul pubblico enorme, ma godono di un’interpretazione particolarmente sentita. “Want” ci piace per il suo muro chitarristico, sul quale si appoggia, priva di ogni sbavatura, la voce di Robert Smith, mentre “A forest” è …no basta mi fermo qui, ci deve essere un limite al ribadire ovvietà.
Il primo rientro è tutto un omaggio allo splendido quarantenne di “Pornography”, in cui finalmente ho l’opportunità di ascoltare live “Cold”. La settima traccia di quell’album spartiacque del 1982, tuttavia, sembra reggersi più sulle chitarre, piuttosto che sulle tastiere (nonostante siano due sul palco), rendendo meno angosciante e più rock il brano, mentre “One hundred years” e “A strange day” rimangono assolutamente impeccabili.
Gli ultimi bis lasciano spazio a un po’ di leggerezza (l’unica “intrusa” poco easy è la martellante “Primary”), per una festa che adesso si carica di sorrisi.
Passerella finale per un Robert Smith palesemente soddisfatto.
Poco da aggiungere. È tornato. Siamo tornati.