Finalmente.
Solo così, in effetti,
potevo iniziare questa recensione. Era tutto già
scritto, ma ti accorgi, una volta di più, quanto
tutti gli articoli pubblicati, tutti i concerti
visti, tutti i dischi ascoltati, si riducano ad un
unico momento: questo.
Quel “See you soon”
pronunciato nell’ultima tappa del tour del 2019
diventò prima una speranza da coltivare nei
momenti più bui e poi un qualcosa da esorcizzare.
Ed eccoci qui, allora,
a riprendere quel filo, in effetti mai interrotto,
almeno nei cuori dei fan.
Presso l’avveniristico
palazzetto della capitale svedese, i Cure sono
anticipati (e lo saranno per tutte le date) dai
Twilight sad, band scozzese, ormai entrata nelle
grazie di Robert Smith. Ritrovo i ragazzi dopo
averli visti poco meno di una decina di volte
durante il tour dei Cure del 2016, apprezzandoli
sempre di più, sia musicalmente, sia come presenza
scenica.
Ma torniamo a noi,
perché due sono le novità quest’anno; ovvero
l’imminente uscita del nuovo album e il ritorno in
formazione di Perry Bamonte, il cui ultimo
concerto con i Cure risaliva all’ormai datato
2004.
Questo di Stoccolma è
il terzo concerto di un tour che vedrà la
conclusione a Londra in dicembre, mentre
esibizione dopo esibizione, diventa sempre più
concreta la realizzazione del nuovo album; non
solo più voci o rimandi, ma nuove canzoni
presentate in anteprima.
E, quindi, è riservata
alla nuova “Alone” l’onere di aprire le danze, per
un incipit di show (ma crediamo anche
dell’imminente lavoro in studio) che trasuda di
profondità e, stessa cosa, dicasi per “Endsong” e
“And nothing is forever”, oggi in anteprima
assoluta.
E sono proprio la
profondità e l’intensità dei concerti che saranno
il leit motiv di tutto il tour, in cui gli spazi
ai balli e ai giochi vengono relegati solamente
per i bis finali.
È una pattuglia ormai
numerosa quella dei Cure, divenuti un sestetto che
riempie totalmente il palco e capace di produrre
un suono così pieno e carico da consentire pause
alla sei corde di Robert Smith, salvo quando il
capo decide di tornare in scena per incidere alla
sua maniera, ovvero aggiustando il tutto con
pennate da direttore d’orchestra.
È questo un racconto
che vuole vivere più sulle sensazioni che sulla
mera cronaca musicale (per quello avremo modo di
sbizzarrirci da qua a Londra), ma un certo
aperitivo è pur giusto presentarlo.
Così, del mainset,
“Pictures of you” e le altre di “Disintegration”
hanno non solo una resa sul pubblico enorme, ma
godono di un’interpretazione particolarmente
sentita. “Want” ci piace per il suo muro
chitarristico, sul quale si appoggia, priva di
ogni sbavatura, la voce di Robert Smith, mentre “A
forest” è …no basta mi fermo qui, ci deve essere
un limite al ribadire ovvietà.
Il primo rientro è
tutto un omaggio allo splendido quarantenne di
“Pornography”, in cui finalmente ho l’opportunità
di ascoltare live “Cold”. La settima traccia di
quell’album spartiacque del 1982, tuttavia, sembra
reggersi più sulle chitarre, piuttosto che sulle
tastiere (nonostante siano due sul palco),
rendendo meno angosciante e più rock il brano,
mentre “One hundred years” e “A strange day”
rimangono assolutamente impeccabili.
Gli ultimi bis lasciano
spazio a un po’ di leggerezza (l’unica “intrusa”
poco easy è la martellante “Primary”), per una
festa che adesso si carica di sorrisi.
Passerella finale per
un Robert Smith palesemente soddisfatto.
Poco da aggiungere. È
tornato. Siamo tornati. |