THE
CURE
@ WEMBLEY ARENA, LONDRA (GB)
1, 2 e 3 Dicembre 2016
Testo di Gianmario Mattacheo
Foto di Gianmario Mattacheo e Adriana Bellato
Cure
2016, ultimo atto. Allora ci siamo. Siamo arrivati alla fine di
questo world tour davvero faticoso: quale miglior modo, se non festeggiarlo
proprio a Londra (mai troppo raccontata città), all'interno della
Wembley Arena, storica venue concertistica.
Prima di mettere la parola fine a questo tour dobbiamo, dunque,
considerare ancora l'ultima grande recita o, meglio, una recita
divisa in tre atti, di cui il primo avrà luogo stasera, per lasciare
i rimanenti due ai successivi 2 e 3 dicembre. Un salto nella storia
recente ci porta a ricordare l'ultima volta in cui i Cure suonarono
alla Wembley Arena; era il marzo 2008 quando gli inglesi terminavano
(anche allora fu conclusione) la parte europea del tour. La storia
è nota e già richiamata dallo scrivente in questi mesi: quel "4:13
dream", targato proprio 2008, è l'ultimo lavoro in studio per una
band che sempre con più fatica raccoglie energie per incontrarsi
in sala d'incisione. Il discorso live viaggia, invece, su ben altri
binari.
Questo world tour è l'ennesima prova di quanto Robert Smith adori
riproporre i suoi pezzi di fronte al suo pubblico, insieme ad un
gruppo che, nonostante i vari rimpasti di formazione, rimane la
sua personale ragion d'essere su un palco: senso d'appartenenza.
La zona di Wembley è proprio come la ricordavamo: meno caotica rispetto
al centro cittadino, spazi decisamente più ampi e, purtroppo, meno
Pub per rilassarci di fronte ad una "Ale" inglese non troppo gasata
(chi non ama la birra, salti l'ultima proposizione) ed all'immancabile
fish & chips. Dopo i consueti The Twilight sad, il gruppo di Robert
Smith entra in scena e, quando non sono ancora scattate le 20.15,
"Out of this world" ha l'onere di fungere da apripista. Da qui in
avanti parte la giostra dei pezzi più o meno proposti nei live set
di quest'anno. Non sono sorprese "Pictures of you", "Just like heaven",
"the walk " (una delle migliori) ed "Inbetween days", mentre sono
accolte con trionfo le meno suonate "Three imaginary boys", "Primary"
e "Bloodflowers".
Il primo rientro è il più qualitativamente alto: la malinconia rabbiosa
di "39", il dark rock di "Burn" ed "A forest" sono tre esecuzioni
che alzano a livelli impressionanti il concerto. Ci piace sottolineare
il clima ancora buonissimo che i musicisti non mancano di manifestare
tra una canzone e l'altra: le occhiate complici tra Robert Smith
e Simon Gallup; il leader pronto a non trascurare o lasciare "troppo
soli" gli altri, coinvolgendoli con alcune battute e sorrisi, rappresentano
solo uno dei tanti esempi che ci fanno apprezzare il lato non prettamente
musicale dello spettacolo. Elementi che aumentano ancora di valore
se consideriamo che la voce di Robert Smith è palesemente in difficoltà
da una decina di concerti, ma che non tolgono al leader la voglia
di soffrire sul palco, donando gioia. Dopo un secondo rientro dominato
dalle chitarre pesanti e concluso con le svisate di Gabrels in "Never
enough" e "Wrong number", la band è pronta per l'ultimo sforzo pop.
Scontate, ma non per questo meno gradite, le gemme commerciali dei
Cure portano a ballare tutta la Wembley Arena; "Friday I'm in love",
"Boys don't cry" e "Close to me" aprono la strada per quello che
dovrebbe essere l'epilogo di "Why can't I be you". Ma quando termina
il brano di "Kiss me kiss me kiss me", Robert Smith concede il regalo
più bello al pubblico londinese, cantando "10.15 Saturday night"
e, soprattutto, quel portento di "Killing an arab".
Sono urla, prima ancora che canti, quelle che vogliono mettere a
rischio la stabilità dell'impianto, ma sono, indiscutibilmente,
energie buone che migliaia di facce sorridenti sentono di condividere
con il vicino. Concerto poderoso.
Se
questa fosse una recensione partirebbe, magari, con una descrizione
della location, avendo cura di ricordare (seppur marginalmente)
le bellezze offerte dalla città ospitante. Se fossimo all'interno
della recensione che non scriverò oggi, si potrebbe accennare alla
band di supporto e a come la propria performance sia migliore o
peggiore rispetto a quella della volta precedente. Oggi, invece,
lascio stare ogni tipo di informazione (quasi), abbandonando la
didattica, in luogo di sensazioni che arriveranno direttamente dalla
mia mano, mentre osserverò la tastiera del computer macchiarsi di
nero. Partiamo dal nero. Perché ad un concerto dei Cure il nero
ci deve essere. Ma poi aggiungiamo anche qualcosa di variopinto
(che non vuole essere solo il rosso della labbra di Qualcuno). Eh
sì, perché all'interno di una recensione seria dovrei spiegare (ecco
lo spirito didattico!) il perché i Cure siano andati oltre ed oltre
quella musica dark degli esordi, per abbracciare un intelligente
pop caratterizzato da scenari variegati. Ecco, allora, bisticciare
perfettamente una "Charlotte sometimes" con una deliziosa "Close
to me"(leggendo la scaletta inizio e fine della recita), oppure,
in questo gioco delle coppie impossibili, accostare "Disintegration"
ad una improbabile "The hungry ghost".
Se questa fosse una recensione, non si dovrebbe neppure accennare
agli inseparabili compagni di viaggio con i quali si condividono
chilometri, stanchezza, sudore, incazzature ed abbracci finali;
oppure il ritrovare quegli amici saltuari, con i capelli che si
ingrigiscono, ma rimangono sempre loro, sempre le stesse facce,
anno dopo anno, tour dopo tour. Ed allora, nella non recensione,
salutiamo la coppia svizzera ed il gruppetto dei fedelissimi tedeschi
(ma una decina di anni fa uno di loro non si presentò a me con il
nome di Haiko? …. E perché mi torna in mente sempre e solo in queste
occasioni?) o alla francese che, quasi fosse la Charlotte della
canzone targata 1981, si posiziona algida, pettinata, immune da
stanchezza, proprio di fronte all'asta del microfono. Sempre! Chissà
che importanza possono mai avere quei bicchieri che i rodies mettono
vicino agli strumenti di Robert. In effetti non ce l'hanno, ma proprio
per questo, mi diverto a fare andare le mani nella suggestione dei
ricordi. Non pensate all'amata birra, durante i concerti Robert
Smith tracanna in continuazione una bevanda (la parte più malata
del mio cranio mi suggerisce succo d'arancia con vitamine), per
rinfrescare l'ugola così duramente messa alla prova. Quello che
vorrei aggiungere è che, nella stanchezza e nella disidratazione
del concerto, mai pozione è stata più intensamente invidiata e desiderata
dagli spettatori!!! In una recensione non si dovrebbe parlare a
lungo di mani alzate verso il cielo. Qui, invece, pretende spazio
il rito che accompagna la fine dell'esecuzione dell'inno "A forest".
Mentre la chitarra tagliente di Robert Smith dialoga con il basso
di Simon Gallup, il ritmico clap clap della folla è spettacolo nello
spettacolo. Osserviamo (ci osserviamo) come comparse di uno spettacolo
che ha ragione di esistere anche e soprattutto per il popolo dei
Cure. Un po' di cronaca, sul finale. Ma solo per aggiungere che
si chiude con "Killing an arab" (e magari a nessuno interesserà
sapere che per lo scrivente nessuna conclusione potrebbe essere
migliore) che si canta con quel briciolo di energie residue. Perché
ora ci aspetta una notte che deve essere rigenerante. Domani inizia
un'altra avventura da aggiungere alla galleria dei ricordi. E, questo,
Robert Smith lo conosce benissimo, ed è per questo che il leader
ha un rapporto così speciale con il suo pubblico.
La dedizione che accompagna le sue esibizioni, la durata delle stesse,
l'intensità delle performance, spiegano solo in parte il legame
che il tempo ha cementato tra la band e chi si è guadagnato lo status
di fan.
Ecco l'ultimo atto di questo lunghissimo tour mondiale. Numeri alla
mano, è stato un tour realmente imponente. A partire dai quasi ottanta
concerti sostenuti dalla band, passando per tutti i continenti toccati,
senza considerare le città e capoluoghi che hanno visto Robert Smith
ed i suoi Cure suonare ogni sera. Insomma ci sentiamo di ribadire
che mai come quest'anno gli inglesi hanno posto in essere qualcosa
di fisicamente importante; sforzi e dedizione che meritano un cenno
prima che si accenda la corrente. Prima che parta la musica. Un
ultimo pensiero anche per i The Twilight Sad, pronto a diventare
un sincero in bocca al lupo per il futuro di questa band scozzese
che ha accompagnato i Cure in lungo ed in largo per il globo. Dopo
averli snobbati, ho iniziato ad entrare più seriamente nel loro
sound, arrivando ad apprezzarne realmente le esibizioni. In particolare,
con le ultime londinesi i Twilight Sad hanno spaccato per davvero,
dimostrando anche ai diffidenti della prima ora (io) che ci sanno
fare.
Ma ora basta. È tempo di parlare dei Cure.
Il concerto di stasera è vissuto con un misto di gioia e amarezza;
è un concerto, ma è anche un ultimo atto. Il dubbio a molti sorge
spontaneo: ultimo di un tour o qualcosa di più? Dubbi che sono alimentati
dalle condizioni di Robert Smith, la cui voce ha dato segnali di
cedimento negli ultimi concerti. A sostegno di quanto detto sopra,
ricordiamo che nello strabiliante concerto di ieri, il grande leader
aveva rinunciato a certi acuti, sapendo che le sue condizioni attuali
non gli avrebbero permesso lo sforzo ("Prayers for rain, soprattutto).
Oggi l'apertura è per "Open" a cui fa seguito (tutto in fila) più
di metà dell'album "The head on the door": "Kioto song" (apprezzatissima),
"A night like this", "The baby scream", "Push" (solita grande festa
di sorrisi e partecipazione), l'hit "Inbetween days" e "Sinking",
sono un importante omaggio all'album targato 1985.
Della prima parte del concerto, gli assi da novanta sono rappresentati
da "If only tonight we could sleep" e da una energica "One hendred
years", prima che "End" concluda il main set. Il primo rientro mette
insieme dark e sentimento, quando le liriche toccanti di "It can
never be the same", lasciano il posto al fumetto di "Burn" ed infine
all'inno di "A forest" (nella migliore versione di quest'anno);
tre canzoni in un equilibrio perfetto.
Ancora un rientro (questa volta meno introspettivo) quando "Shake
dog shake", "Fascination street", "Never enough" e "Wrong number"
fanno saggiare chitarre potenti alla Wembley Arena.
Quindi, quando il concerto volge verso il termine, pubblico e band
si preparano all'ultimo momento di questo tour, mentre gli ultimi
encore sono pronti per essere suonati. Ammetto una commozione sul
finale, con lacrime che tiro indietro (perché qualcuno mi insegnò
che i ragazzi non piangono, dopotutto) quando Robert Smith si avvicina
al microfono mettendosi completamente a nudo di fronte al suo pubblico.
Con una gola che non gli permette quasi di parlare, saluta e si
dichiara, comunque, fortunato ad essere qui.
L'immagine di un uomo, prima ancora dell'artista; un uomo esausto,
stanco e felice allo stesso tempo è una delle emozioni più forti
che il grande cantante e chitarrista mi abbia mai regalato. Dopo
partono gli ultimi pezzi e, quasi a contraddire l'immagine appena
offerta, Robert Smith canta a squarciagola (immaginiamo solo lontanamente
gli sforzi): da "Lullaby" a "Close to me", a "Friday I'm in love"
(credo che durante questo pezzo per Robert il male alla gola si
fosse tramutato in dolore puro), passando per "Freakshow" e "Why
can't I be you", la band suona con la spontaneità di ventenni debuttanti.
E poi le ultime canzoni, quelle scritte quando gli anni ottanta
erano solo un miraggio. "Three imaginary boys" e "10.15 Saturday
night" aprono il campo a quella "Killing an arab" che ormai tutto
il pubblico attende.
La voce di Robert c'è fino in fondo. E anche se non ci fosse … e
chi se ne frega: ciascuno avrebbe regalato comunque un po' delle
proprie corde vocali al grande capo. In una bolgia infernale nessuno
rimane seduto.
Dal palco, tra i musicisti, partono i sorrisi e quelle occhiate
che vogliono dire "E' fatta!", ed infine spazio soprattutto a lui
che compie l'ennesima passerella per dare un ultimo saluto ai suoi.
Poi si avvicina al microfono: "See you again". … ed allora non è
finita.