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THE CURE
live @ Hyde Park, Londra (GB). 07 luglio 2018

Testo e foto di Gianmario Mattacheo




Quando alla Wembley Arena di Londra, il 3 dicembre del 2016, i Cure conclusero il world tour, rimanemmo stanchi, felici, ma con una non nascosta voglia di piangere. Robert Smith sfinito nel fisico e provato a seguito dei dolori alla gola sembrava quasi come un re che si congedasse

(definitivamente) dal suo pubblico. Poi si avvicinò al microfono per gridare quel "See you again" che tanto ci bastò per continuare il sogno.
Ed il leader è stato di parola, perché oggi siamo pronti a vederci ancora e rivivere il sogno (il nostro sogno) che profuma di festa se, come è risaputo, si celebrano con lo spettacolo odierno i 40 anni di carriera della band.
Mai nella storia i Cure avevano deciso di autocelebrarsi e di farlo, soprattutto, così in grande. Un concerto presso il più grande polmone verde di Londra, anticipato da una serie di gruppi (in qualche misura) legati o influenzati dalla quarantennale storia musicale e lirica del gruppo di Smith.
La celebrazione si fa ancora più interessante dalla presenza di Tim Pope (il regista dei migliori videoclip del gruppo) che dichiara di filmare l'evento, anche se stressato dalle continue domande al riguardo, indosserà una maglietta con scritto "Sì, filmerò il concerto. Non so quando lo vedrai. Non chiedere nemmeno".
Un'estate intensa per il leader; la camicia ancora madida di sudore per gli sforzi relativi all'imponente organizzazione del Meltdown Festival, di cui è stato curatore di questa edizione, e dall'ultima serata conclusiva della stessa rassegna musicale, quando fu lo stesso Robert Smith a salire sul palco con i Cure, ma mascherando l'esibizione per non darne troppa risonanza, arriva la terza assoluta ad Hyde Park, dopo le performances del 1993 e del 2002.
Il recente Meltdown ha dato la possibilità a Robert Smith di aprirsi, attraverso più interviste, con dichiarazioni mai banali sulla sua arte, sul passato e sul futuro. Senza ripetere o fare un sunto di quanto abbia analizzato (anzi rimandiamo ai potenti mezzi della rete il compito di ripescare le sue parole) ci piace solo sottolineare quanto l'esperienza di sentire colleghi giovani lo abbia stimolato a riprendere la penna in mano e dare una continuazione ai dischi in studio, capitolo interrotto dieci anni fa con la pubblicazione di "4.13 dream".
La giornata musicale e le attese di rito iniziano fin dal mattino, quando le band si avvicendano sul palco. Il grande parco di Londra è sempre un luogo in cui è bello tornare; alle persone che sono intervenute per fini concertistici, se ne uniscono molte altre che, al di là degli spazi transennati per l'esibizione dal vivo, vivono la quotidianità degli alberi e del verde a due passi dal Tamigi.
È un caldo infernale che non lascia tregua quello odierno e, con un clima così difficile da digerire, risultano anche poco godibili le esibizioni delle band di supporto.
Convincono, comunque, gli Slowdive il cui apprezzato ritorno discografico ci consente di riascoltare anche vecchi hit del passato, con quei giochi di rumore e melodia tipici del loro shoegaze. Goldfrapp (sorrisi e buon umore ad Hyde Park), Editors ed Interpol lasciano performance dignitose, ma non trascendentali, oneste, ma emotivamente piuttosto piatte.
Ma alle 20.15 il giardino di Londra non aspetta altro che celebrare le quaranta primavere dei Cure. Ed allora eccoli, così come si sono stabilizzati dal 2012: Reeves Gabrels, Roger O'Donnell, Jason Cooper e Simon Gallup, ad anticipare il deus ex machina, da sempre e per sempre. Le urla per il suo ingresso on stage non sono solo flussi adrenalinici positivi per l'imminente inizio del concerto, sono una rappresentazione di affetto/amore per Robert Smith (… solo la parte familiare che indossa un anello all'anulare della mano sinistra può comprendere fino a che punto possa arrivare tale devianza da fan e, per questo, perdonare simili scemenze). Il leader compie la sua passerella ridendo e scherzando con il pubblico, mentre con il sole in faccia mima il gesto di un vampiro che intende allontanare la luce pericolosa alla sua salute.
I primi momenti sono vissuti proprio così, con la band leggermente frastornata nel suonare, quando è ancora pieno giorno e, soprattutto, quando il calore di una intera giornata trova l'apice assoluto. A ritornare alla normalità ci pensa "Plainsong" che ha l'onore di aprire le danze in questa festa del quarantennale e, subito dopo, la "Pictures of you"con la quale iniziano gli immancabili siparietti tra Smith e Gallup. È un concerto relativamente breve per gli standard dei Cure; l'organizzazione ha fatto sapere che non si andrà molto oltre le due ore di spettacolo e questo impone alla band una scelta di brani che possa essere moderatamente festaiola, ma anche rispettosa delle molte facce dei Cure.
In "Inbetween days" le tastiere svolazzanti di O'Donnell rendono il pezzo piacevolmente sognante, così come il pop di "The end of the world" è vissuto come un momento di spensieratezza ed il funky di "The walk" l'immancabile tripudio di una giornata di festa. A ricordarci i Cure introspettivi, per contro, ci sono "If only tonight we could sleep", "Play for today" ed "A forest", con Gallup che prima finge di "strozzarne" la conclusione per poi dare spazio al consueto martellamento del proprio basso elettrico. Ancora una "Burn" (ormai una piacevole costante delle scalette live) ed una "From the edge of the deep green sea (migliaia di mani che tendono al cielo) anticipano "Disintegration" che non parte proprio benissimo, ma che il leader è capace di raddrizzare sul finale, per una conclusione del set principale.
Robert Smith spende anche alcune parole sul quarantennale ringraziando il pubblico e ritenendosi fortunato e facendo anche cenni alla lunga storia dei Cure ed agli esordi nei pub di Crawley. Poi ancora musica e non ci sono sorprese se il rientro è composto dalle più celebri pop song del catalogo. Da "Lullaby" ad una "The caterpillar" (forse la migliore di oggi), a "Friday I'm in love", a "Close to me" e "Why can't I be you" per una festa che è sempre più collettiva. Poi spazio al gran finale degli anni settanta, con "Boys don't cry", "Jumping someone else's train", "Grinding halt" (tanto semplice quanto straordinariamente carica di energia e trasporto).
Il finale è scritto, lo sappiamo. Prima "10.15 Saturday night" e poi l'apoteosi del primo singolo della band: "Killing an arab" e tutti a cantare, anzi no a gridare e gridare perché non si può chiudere meglio e non si può fare diversamente (meno che mai oggi). Poi si avvicina al microfono. C'è ancora quel "See you again" a cui aggiunge anche un "Soon", questo giro. Ma proprio non ti stanchi mai di fare le stesse cose, Robert? Ahhhh!!! E noi con te.