The
CURE
@ Frequency Festival –
St. Polten, 18 agosto 2012.
testo
e foto by Gianmario Mattacheo
Eccolo.
Lo avevamo temuto ed aspettato ed è arrivato. È arrivato
quel concerto che segna, inesorabile, il passaggio del tempo in chi
è spettatore, specie se si considera tutto ciò che anticipa
l’evento principale. Ho corso troppo, lo so; un piccolo passo indietro.
Il
Frequency Festival di St. Polten, è pronto ad accogliere una
delle ultime tappe del tour europeo dei Cure, giunto ormai ai capitoli
conclusivi.
L’unico
concerto austriaco per questo tour del 2012 è ospitato presso
una cittadina distante circa un’ora da Vienna, meta turistica per
il celebre palazzo del Governo, l’antico centro storico e, più
recentemente, per il Festival odierno.
La
musica, in realtà, sta dettando legge al Frequency dalla giornata
di Ferragosto, quando band come Killers, Placebo, The Hives, Wilco
confermano come il Festival austriaco si sia messo assolutamente in
linea con i principali colleghi europei.
La
band di Smith arriva al concerto odierno in parte riossigenata dalla
pausa di circa un mese che separa i nostri dall’ultima esibizione
francese di Veilles Charrues; una pausa senza dubbio necessaria, considerato
il tour estenuante e le maratone live a cui si stava sottoponendo
il gruppo.
Il
primo impatto con l’arena del festival ci indica che non siamo di
fronte ad una folla oceanica. È vero che i palchi allestiti
sono tre, ma è altrettanto vero che sono molti gli spazi vuoti
e (miracolo!) le code per accedere alle aree di ristoro, piuttosto
che ai servizi igienici sono minime. Leggendo
i nomi in cartellone in attesa del main event, non possiamo che armarci
di coraggio e sperare che il tempo voli ugualmente, nonostante chi
scrive non sia minimamente interessato dagli artisti on stage.
I
Glasvegas ed il loro stonato sound che strizza l’occhio (od il look)
al rockabilly sono una delle note migliori. Ancora pollice in alto
per gli Hot Chip con un coinvolgente rock elettronico. Una “macchietta”
il frontman della band che, attraverso la sua immagine di piccolo
antidivo, contribuisce a mantenere alto l’umore sotto il palco (è
molto più simile al personaggio “Casco Nero” del film “Balle
spaziali” di Mel Brooks, piuttosto che a un idolo per ragazzine!).
Della
musica prodotta dai Bloc Party posso solo dire che non ho apprezzato
neppure una nota. Non voglio discutere la (probabile?) bravura, arrivo
solamente a constatare che la prova degli inglesi mi risulta assai
noiosa e senza particolari picchi emotivi.
Ma
è quando arrivano gli Sportfreunde Stiller che inizio a vedere
i segni inesorabile del passaggio del tempo. Questo
trio tedesco (tutte informazioni raffazzonate post concerto, sia chiaro),
coadiuvato da una serie di altri musicisti posti su un palco superiore
(si sono permessi anche tre violiniste!) suonano un rock che dovrebbe
essere giovane e spontaneo, ma finisce per risultare solo noioso ed
imbarazzante.
Ma
l’imbarazzo più grande, in realtà, è proprio
il mio, quando mi vedo all’improvviso accerchiato da una serie di
ragazzine (qua e là, invero, c’è anche qualche bambino) con
una età media che non supera i sedici anni!
A
questa immagine si aggiungono centinaia (non credo di esagerare) di
ragazzi che praticano il “Crowd surfing”, ovvero il far passare una
persona sopra il resto della folla e trasportarla fin sotto il palco.
Questa
è l’immagine dell’ora abbondante che anticipa l’ingresso dei
Cure. In pericolo che mi caschi continuamente qualcuno sulla testa,
assordato da una musica che fa schifo ed accerchiato da ragazzine
urlanti! E,
ciò nonostante, me la godo un sacco; mi ritrovo a ridere come
un matto, affascinato dal vigore dei giovanissimi fan che vedo oggi
(non dalla musica che, ripetiamolo, fa schifo).
Finalmente,
lo spettacolo ha termine (con, purtroppo, un ultimo bis per la folla
in delirio!) e ci si appresta a fare sul serio.
Si
inizia ad allestire il palco della migliore band del mondo (concedetemi
lo sfogo, dopo quello che mi sono sorbito), e devo concentrarmi nel
ritornare nel clima giusto, avendo ancora stampato sul viso quell’immagine
ebete, sorpresa e perplessa, frutto di quello che avevo appena vissuto.
Alle
22.45 le luci del palco principale (che qui viene chiamato “Space
Stage”) si abbassano ulteriormente, lasciando lo spazio al vociare
sempre più intenso dei fan.
Dal
fumo prodotto in scena emergono i Cure nella formazione che caratterizza
i concerti di quest’anno: Robert Smith, Simon Gallup, Jason Cooper,
Roger O’Donnell e Reeves Gabrels si presentano in totale divisa nera;
insomma, la tradizione diventa religione!
Il
primo brano ricade su “Open” (è l’ottava volta solo quest’anno),
per un’ovazione che raggiunge decibel davvero impressionanti. Smith
si gode il suo pubblico, mentre il resto della ciurma entra nel clima
del brano: rock decadente per un pezzo tra i migliori di sempre nella
discografia degli inglesi. I
Cure con “High” proseguono attingendo dall’album “Wish”, che nel 2012
spegne le venti candeline e si continua con “Lovesong” e “Sleep when
I’m dead”, quest’ultima risulta una delle più intense e meglio
interpretate di oggi.
Il
gruppo appare in forma ed affiatato. Non mancano occhiate complici
ed ognuno è pronto a ricoprire il proprio ruolo: gregari di
lusso (ci piace in particolare osservare un Simon Gallup assai tonico
e più agile rispetto a precedenti prove), dinanzi al grande
deus ex machina del gioco.
Senza
pause e spaziando tra i variegati generi suonati e creati in questi
anni, i Cure passano da pop song a rock song partecipative, fino ad
arrivare a quelle canzoni cariche di dolore che, inevitabilmente,
spengono i sorrisi e portano la mente ed il cuore lontano e lontano
e lontano.
In
“Push” la band si diverte proprio un sacco; “The walk” (tra le migliori
esecuzioni per tutto il tour) è una bomba dance rock che fa
danzare tutto il pubblico; “Friday I’m in love” è una canzone
che continua divertire (esattamente come nel clima di festa del celebre
video del 1992); “Play for today”, “Wrong number” e “Just like heaven”
sono eseguite al massimo e, così diverse tra loro, sembra impossibile
che siano state scritte dalla medesima mano; “A forest” e “One hundred
years” sono degli inni evergreen ed il momento è sempre catartico.
Durante
“Want”, invece, qualcosa non parte nel verso giusto e Gabrels non
riesce a proporre il refrain che dovrebbe anticipare la voce del capo,
mentre “Trust” e, soprattutto, “Pictures of you” mettono in primissimo
piano la dolcezza del suono e delle liriche di Mr Smith.
L’ultimo
brano del main set è per la decadente “End” che, bella ed ipnotica
al punto giusto, rimane un brano di qualità assoluta.
Osserviamo
Robert Smith sbagliare direzione nel ritorno al backstage ……….. l’intervento
di Roger O’Donnell, riporta il leader sulla retta via!
Rientro
per le ultime pop song di stasera. Prima “The lovecats” poi le travolgenti
“Close to me” e “Let’s go to bed” portano tanta allegria e partecipazione;
infine “Why can’t I be you” e “Boys don’t cry” chiudono definitivamente
il concerto.
Mano
sul cuore, alcuni sorrisi ed un grande ringraziamento sono le ultime
istantanee di oggi (e questa volta è O’Donnell a sbagliare
direzione!).
Si
rimane ancora per qualche minuto in attesa di un ulteriore bis, ma
le esigenze di organizzazione hanno imposto tempi più ristretti
del solito. Oggi
poco più di due ore e mezza. E pare un concerto breve. Accidenti,
ad essere abituati bene!