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STALINGRAD, 22-02-03, JAM CLUB (MESTRE).

Le premesse sono delle migliori, posto ampio e con grande palco adatto e studiato per ospitare dei concerti, anche se poco agibile in quanto immerso letteralmente nella campagna. Un enorme capannone di nero vestiti che ospita la prima uscita live italiana del progetto di A. Bergamini ed Elena Fossi: Stalingrad, che si alternano tra synth e tastiere, aiutati in questa occasione da Ivano Bizzi (credo), anch'egli alle tastiere. Appena il tempo di ambientarsi ed ecco che le oppressive tastiere di "The road on which you die" irrompono nelle mie orecchie e mi lasciano pietrificato dal lento e progressivo crescere vocale del duo per un finale da incubo. Il concerto prosegue, con quel solito brusio di sottofondo che disturba l'ascolto e forse anche A. Bergamini (che ne sembra leggermente infastidito), dovuto probabilmente alla scarsa presenza scenica che non rende partecipe il pubblico; ma visto il genere musicale proposto credo che una presenza gelida e visivamente angosciante abbia reso la performance assolutamenete rarefatta ed intensa. Stalingrad colpisce per la maestosa e crescente presenza di archi, che nella loro semplicità emozionano, amalgamati sapientemente con suoni sintetici provenienti da un luogo non precisato delle glaciali e nude steppe siberiane, ove sembrano vivere popoli intenti in percussivi rituali tribali e marziali. Il finale è sicuramente più electro e vicino a sonorità familiari ad A. Bergamini, ricordando i Kirlian Camera, anche se la musica mantiene una personalità propria. Un piccolo e breve - visti i 45 minuti di concerto - ma intenso viaggio nell'Io più profondo e nascosto, e nella congelata aridità che un uomo può provare in alcuni momenti della propria vita, sensazioni che, a mio malincuore, buona parte del pubblico non ha nemmeno provato a percepire. (testo e foto NOCTILUCA)

 

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