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The SISTERS OF MERCY

@ Alcatraz, Milano, 9 marzo 2009

Testo by Brian K

... Certo che quando uscì Vision Thing, me lo ricordo bene quell'ormai lontanissimo 1990, tutti pensavamo fosse un episodio di passaggio. Tutti noi amanti del dark, fra il perplesso e il deluso, speravamo che il mitico Andrew Eldritch sarebbe presto tornato ai vodoobilly d'oltretomba che l'avevano reso celebre, abbandonando quel rock chitarristico e muscolare di facile presa che de facto tradiva, con adolescenziale cipiglio, la sua visione apocalittica del mondo, in fondo da noi tutti condivisa.

Andare a vedere i Sisters of Mercy oggi equivale un po' ad andare a vedere i Bauhaus nel 1998, anche allora all'Alcatraz, o gli stessi Sisters 10 o anche 5 anni fa: una sorta di monumento a se stessi, al loro passato, bloccato e cristallizzato in un simulacro che nessuno vorrebbe mutasse mai. Certo, qualche canzone nuova c'era, la prima Crash & Burn ad esempio, carina ma niente di esaltante, o la già sentita We Are the Same, Suzanne, in tutto non più di 3-4 brani a rappresentare un'attività compositiva ormai quasi ventennale... A maggior ragione l'unica vera artista di quella dorata generazione, col senno di poi, sembra essere rimasta solo Siouxsie: bella ed aggressiva come sempre, rispettosa del suo passato sì, ma non timida nel proporre le ultimissime novità. Cari maschietti, una volta di più è una ragazza (e che ragazza) a bagnarvi il naso!

Un noioso e frignone gruppo spalla (una sorta di clone moderno dei Southern Death Cult) ha intrattenuto pochi astanti una mezz'oretta. Poi quasi un'ora di snervante attesa, durante la quale l'Alcatraz si è giustamente riempito non poco e la macchina del fumo si dava da fare a intorbidire oltremodo l'atmosfera. Poi finalmente loro, i Sisters of Mercy, uno dei maggiori miti della storia del rock gotico, certo, ma chi sono oggi? Nulla, giusto un nome, una sigla, un moniker che accompagna il vecchio, calvo e imbolsito Andrew Eldritch in queste tournée infinite, sempre uguali a se stesse, buone al più ad assicurargli il pane quotidiano e una dignitosa pensione.

Già, perché purtroppo oggi i Sisters of Mercy non sembrano molto più di questo. Persino l'unico altro membro fisso del gruppo, il virtuale Doktor Avalance, nome di fantasia di una drum machine sempre cambiata negli anni, oggi non c'è più, sostituito da un più moderno laptop Mac, come ormai fanno tutti. Laptop al quale, visto che ci sono, fanno eseguire anche tutte le parti di synth e di basso (che è comunque synthetico), di modo da non lasciare nulla al caso. Oltre a ciò, i due chitarristi Ben Christo e Chris Catalyst: il primo un cicisbeo metallaro, belloccio e muscoloso, il secondo un rozzo e truzzo post-punk dai basettoni ipertrofici. In mezzo ai due, un uomo basso, tarchiato e calvo, irriconoscibile rispetto alle foto che ancora di lui circolano.

Certo, la voce non l'ha mai avuta, lo sappiamo. L'impressionante e roboante basso catacombale che sentiamo nei dischi è puro frutto di studio, dal vivo si sente solo di lontano una sorta di rantolo sinistro, tranne quando si leva l'urlo (e allora al mixer devono affrettarsi a tirare giù un volume amplificato a perenne rischio larsen). Ma ciò che più irrita è il sound: tutto sintetico e programmato, tranne un chitarrista-zappatore strasentito e un altro in perenne assolo metallico, tecnicamente ineccepibile, per carità, ma buono più a mostrare i risultati della palestra che a dare vero pathos alle canzoni. Canzoni che di per sé non brillano per innovazione compositiva né interpretativa, anzi apparentemente tutte allineate a quell'inoffensivo roccuccio muscolare e adolescenziale che Vision Thing aveva tanto preoccupantemente anticipato vent'anni fa. E, guarda caso, più sfilavano i loro minori, tratti appunto da quell'album, o da First and Last o dalla nuova produzione, maggiormente quest'impressione veniva confermata. Certo, un rock duro e trascinante, difficilmente i piedi riescono a star fermi, ma sembrava che i Sisters, da cantori dell'anima nera, della cattiva coscienza di un secolo alla disperazione, si fossero trasformati in (mi si perdoni il paragone) innocui cloni degli ultimi Clan of Xymox, piuttosto che, orrore fra gli orrori, di Sanguis et Cinis qualsiasi...

Tuttavia... tuttavia quando minori i brani non erano... ecco riaffiorare quel pathos, appunto, quell'intensità, quella meravigliosa vibrazione sinistra che giustamente Andrew Eldritch deve al suo fandom, dal momento che non ha voluto evolvere e rischiare artisticamente. Ecco, i capolavori da The Reptile House (Kiss the Carpet) ma soprattutto da Floodland, erano ancora in grado di far accapponare la pelle! Lì tornava fuori il vecchio leone, il cupo cantore di un'epoca malata e tossica, con un'intensità straziante e senza uguali, finalmente i due chitarristi ora umilmente piegati alle necessità espressive dei testi, Flood I su tutti, probabilmente il capolavoro della serata.

Certo, i brani sono stati accorciati, e forse This Corrosion lo meritava anche, di certo non Lucretia my ReflectionTemple of Love, ma sono ancora perfettamente in grado di evocare esotericamente quei fantasmi funesti che ci portiamo dentro, quei demoni di una modernità mostruosa che infestano così tenacemente la nostra psiche collettiva, e così meravigliosamente evocati dalle frenetiche danze vodoo-lemuriane di questo sciamano oscuro.

Grazie Andrew Eldritch. Forse non sei più in grado di agganciarti a quelle forze oscure ultraterrene che hanno ispirato i tuoi capolavori. Ma, nel guadagnarti onestamente la pensione, sei ancora capace di inquietare ed emozionare 2 o 3 generazioni di fan, non solo di farli ballare. Ci chiediamo solo, con leggero sgomento, come potrebbe essere la tua musica se decidessi di mettere a tacere metallo dozzinale ed effettacci giovanilisti, e volessi far tornare a parlare lo strumento musicale per ciò che sa esprimere, per accompagnare degnamente la cupa sensibilità della tua anima un tempo veramente nera.

Per favore, non lasciare all'INPS (o in questo caso all'EMPALS) l'ardua sentenza.