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"There, oh there, there is the land

All the musics shall combine"

La sensazione era esattamente quella. Quella che ci avevano promesso, intendo.
Da mesi non era raro imbattersi, navigando per pagine web a carattere musicale ed affini, nelle tracce della raffinata propaganda del Post Romantic Empire Final Fest.
Cartoline da mondi trascorsi (o, forse, a venire?), i manifesti, oltre a rappresentare un supporto visivo all'altezza della -tanta- sostanza, ci preannunciavano quello che sarebbe stato il leit motiv delle trenta ore in questione: la fine.
E l'Init è dichiarato il luogo di sepoltura dei sogni, il tardo pomeriggio del diciassette Ottobre l'ora designata quale inizio di un lungo crepuscolo: da "The shining shining world" viene estrapolato il motto di questo idilliaco gioco al massacro.
"Come I shall show you where dreams go to when they die"
Ma sono duemila anni che l'uomo si inerpica nel fallimentare tentativo di arrivare preparato alla fine.
Una manciata di minuti prima dell'ingresso sul palco dell'ensemble che al momento risponde al nome di Current 93, ho preso -e non ero certo l'unica- coscienza del fatto che i sogni erano ormai agli sgoccioli, al termine della loro fulgida agonia. Dopo trenta ore ed un'attesa di cinque mesi, risulta difficile abituarsi e rassegnarsi all'idea.
Ci avevano promesso il sentore d'una fine incombente, la paura del termine ultimo amalgamata all'impazienza di vivere quell'unico giorno lungo trenta ore.

 

 

POST ROMANTIC EMPIRE FINAL FESTIVAL

17 / 18 Ottobre 2009, INIT CLUB, Roma

Testo: Giulia Mengozzi
Foto: Michela Cuoghi

 

L'Init Club si trova al termine di una breve quanto ripida salita, laddove via della Stazione Tuscolana viene attraversata dall'acqua Claudia e si getta poi sui binari della vecchia ferrovia.
Riconosci non tanto la location, ma l'evento in sé, dal fatto che i laterizi dell'acquedotto di cui sopra siano illuminati di rosa ad intermittenza, il medesimo fil-rosèe dei volantini, virtuali o no, visionati ormai decine di volte. Lo riconosci dallo stendardo nero appeso all'ingresso: reca la scritta "IMPERO", in rosso, mal eseguita, insegna di un'estetica che andrà poi a ribaltarsi all'interno. Ma per scoprirlo dovremo ancora attendere una quarantina di minuti considerato che l'evento vero e proprio, beh, lo riconosci da un'interminabile fila.
Lì per lì mi meraviglio, non mi aspettavo una tale affluenza e ne rimango piacevolmente colpita, al di là del clima ingeneroso che mi spinge a non desiderare altro che trascinare le mie ben poco coperte estremità inferiori in prossimità del palco - leggi: al caldo.
Scopriamo, ad onor del vero, che la fila è in realtà un ritardo dovuto a chissà quale debacle organizzativa che i ragazzi del PRE cercano di rattoppare distribuendo graziose spillette, ma tant'è: tra attese, attestazione di nominativi e quant'altro riesco ad entrare solo sul concludersi della prima esibizione, sicchè, poco diligentemente, mi metto a girovagare per la location.
E me ne pento, in effetti, vista la bellezza delle architetture elettroniche dei MIR, ricercate ma di immediata metabolizzazione.
Faccio un acquisto all'acqua di rose (le spese più ingenti richiedono una mezza giornata di riflessione) ai forniti stand di Hellnation, Centre Of Wood, Mannequin Mailorder e Trips und Traume e poi mi getto nuovamente all'interno, stavolta ben intenzionata a fruire a dovere delle prime portate di quel succulento banchetto che è il PRE Final Fest.
Il... progetto? Collettivo? Divertissement? Qualsiasi diamine sia la definizione adatta a "Zampe Rotte", per me è l'inizio della fine: le sonorità ora aspre ora magmatiche ben si sposano alla percezione dell'interno dell'Init come un utero di pece addobbato a festa. Le due ragazze, Mushy e Lili Refrain, ci distribuiscono sorridendo palloncini neri e piume rosa: è davvero spontaneo eleggerle a vestali di quest'intro all'apocalisse, specie considerata la portata del personaggio che ora s'impossessa del microfono.
Mentre gonfio un palloncino ne riconosco la voce, alzo gli occhi e al di là della circonferenza di plastica scura vedo Spectre: al secolo Marcello Fraioli, null'altro che Ain Soph nel mio cuore. Una voce imperfetta ed evocativa, vissuta quanto i suoi tratti, carica di retaggi musicali, culturali e poetici che perfettamente si combinano alle sperimentazioni industrial che sarebbe riduttivo definire di background.
Zampe Rotte ci mette innanzi ad un magma sonoro che non ha nulla di quel che personalmente recepisco come il tallone d'Achille del grosso della scena ambient, ovverosia una bassa percentuale di fruibilità sulle lunghe distanze, una certa alienata noia che subentra dopo pochi minuti d'interesse devoto per lo più al lato concettuale.
Zampe Rotte non ci porta ad un'astrazione autistica, se non quel minimo necessario a godersi un'esperienza sonora dal carattere così smaccatamente espressionista ed umorale - a livello percettivo, s'intende. Zampe Rotte tiene svegli, nel senso meno immediato del termine: non mi sto limitando a dire che non fa sbadigliare per la noia, miro ad specificare la portata "svegliativa" della loro musica, che mai vede crollare una struttura discreta ma sempre percettibile, pur nell'intersecarsi con la voce e gli atteggiamenti menadici di Lili Refrain - deliziosamente sanguinea. Onore al merito.
A conclusione, dopo -ahinoi- un intoppo dovuto a questioni tecniche, Spectre ci regala una gucciniana "Avvelenata" più inaspettata e dissonante che mai. Solo una volta tornata a Milano avrò modo di scoprire, leggendo un'intervista a Giulio di Mauro, che per l'organizzazione sarebbe stato un sogno poter ospitare Guccini stesso.

Non è un nome a tal punto noto, quello di Federico Fiumani, ma anch'egli a modo suo incarna una leggenda. La Firenze degli anni '80, la new wave nostrana nell'immaginario collettivo e via in un susseguirsi di elementi che vanno a creare il nostalgico collage che è il ricordo dei Diaframma. Fiumani ne è innegabilmente la spina dorsale, col suo carisma ruvido e la sua presenza assoluta, che vanno a compensare quella che, in effetti, non è stata proprio una performance memorabile. Ci propone la consueta antologia del repertorio dei Diaframma (con consueto picco emotivo sulle altrettanto consuete Siberia, Tre volte lacrima, Gennaio, più un delirante medley finale di tre pezzi condensati), eseguita unicamente col supporto della sua chitarra elettrica.
In effetti laddove è da localizzarsi la debolezza del live, si può anche trovare la chiave per rivalutarlo, specie col senno del poi, se decontestualizzato da un tour de force tanto ricco di spunti: chi altri se non il nostro “consueto” Fiumani avrebbe affrontato in solitudine un pubblico già sul punto di farsi la bocca con l’offerta del PRE?
Lì per lì ho sorriso, ma c’è da dire che, alla sesta volta che lo vedo sul palco, Fiumani m’ha conquistata in differita.

Musica classica, come ad ogni cambio. Palloncini neri scoppiano di tanto in tanto, calpestati dalle suole della folla che va accalcandosi sotto il palco, dal bordo del quale s’affacciano le cosce divaricate di un manichino. Palco che è ancora vetrina di sonorità legate al folk nostrano.
O per meglio dire neo-folk: il trattino è zelante, ma voluto.
Da uno degli episodi più rappresentativi della new wave italiana si passa infatti alla (ri)proposta di sapore folk capitolino degli splendidi Ardecore. L’alternarsi delle voci di Sara Dietrich e Giampaolo Felici (vedi al brillante capitolo Zu, peraltro) l’immagine di una Roma d’altri tempi ma quanto mai pulsante, ora nostalgica e malinconica, ora brutale e tragica, quotidiana e al contempo atemporale.
Da lacrime agli occhi, peraltro, l’intervento di David Tibet, non annunciato ma decisamente nell’aria: nello specifico, ci era stato accennato quello stesso pomeriggio, durante la visita alla personale di Tibet al Motel Salieri.
Le due voci vanno intersecandosi, in un sovrapporsi di cadenza romanaccia vera e fittizia, del canto cristallino ed acuto di Sara e quel sibilo arido e toccante al quale Tibet ci ha abituati negli anni.
Pare che ancor più di Tibet, il pubblico dell’Init si faccia galvanizzare dall’apparizione di una Nada Malanima particolarmente in forma, che esegue i suoi celeberrimi cavalli di battaglia e poi insiste per cantare “Fiore de gioventù” degli Ardecore. E’ un crescendo toccante, al termine del quale partono spontanei meritati scrosci di applausi. E dalla Roma degli stornelli si va alla Roma (non meno autentica, a ben vedere) dei “maledetti feticisti”.

Salgono sul palco gli Spiritual Front: l’Init è gremito e la maggior parte degli astanti conosce a memoria i brani della band capitanata da Simone Salvatori. Uso il termine “capitanata” per pura formalità. Al di là dello sferzante carisma di Hellvis (in qualità di musicista ma anche in virtù della sua presenza sul palco), che catalizza attenzione ed una gragnola di lingerie, gli Spiritual si confermano quali un quartetto dal suono composto e compatto, in cui ogni elemento compete a creare quella particolare atmosfera che è ormai loro cifra stilistica: tra mitteleuropa e deserto del Mojave, il tutto stretto in una fumosa locanda romana.
Voglio dimostrarmi assolutamente incontentabile nel sollevare un piccolo cruccio personale: ho sperato fino all’ultimo di veder comparire sul palco i Naevus, vista la precedente collaborazione per lo split “Bedtime/Badtime”. Ma questo era proprio un desiderio da “maledetti feticisti”, per riciclare nuovamente le parole con le quali Simone ha reagito al terzo paio di mutandine volate sul palco.

Rispetto alla raffinata iconografia dell’Impero (che effettivamente non riesco a smettere di tirare in ballo, tanto m’ha colpito quell’affastellarsi di daini e Jean Fontaine, di isole deserte e fronde boschive, il tutto declinato in quella particolare tonalità di rosa che qui si fa dichiaratamente simbolo del crepuscolo, della fine), non riesco ad immagine nulla di più stridente della comparsa di Danilo Fatur.
Assolutamente, consapevolmente e credo volutamente laido. Violento e provocatore già solo per il physique du role, questa mole d’essere umano e ferraglia è quel che non stenterei a definire un pezzo di storia.
Eletric people, on the road again!
Non so quante volte ho ascoltato “Canzoni Preghiere e Danze del II Millennio”, forse l’album meno considerato dei CCCP e forse quello a cui, personalmente, sono particolarmente legata.
E non so quante volte ho ascoltato quel totale delirio che è “Vota FATUR”, immaginando lerce vie elettrificate a Bangkok, immaginando tailandesi efebiche proporsi al Fatur dell’immaginario collettivo, il nerboruto “braccio che muove il telaio”, la giustapposizione (im)perfetta alla grazia di Annarella.
Non si può non citare il capitolo CCCP nell’approcciarsi alla performance vista in quel dell’Init: “INDIETRO NON SI TORNA!” recita un flyer pubblicitario dello stesso Fatur e dal momento che non si torna indietro ed i CCCP sono caduti assieme al muro di Berlino, siamo di nuovo qui per celebrare la fine.
Che dalla fine a questa parte intercorrano vent'anni poco importa, sfido chiunque ad essersi approcciato a Fatur nella sua individualità, prescindendo dai CCCP. Non l’ha fatto lui stesso, dal momento in cui il finale ed il climax della sua esibizione è stata una versione folle e dissacrante di “Spara Juri”. Apologia totale della fine: dal pubblico, qualcuno gli consiglia di spararsi. Un suggerimento a dir poco iconoclasta.
Il vero atto finale e post romantico dei CCCP, ovvero l’esibizione innanzi all’Armata Rossa, è indubbiamente da identificarsi ben lontano dall’Init del 2009. Eppure è godibile, quest’ennesima fine.

Si chiude qui l’ouverture tutta italiana del festival: Giulio Di Mauro stesso dichiarava in un’intervista come questa proposta di sonorità di casa nostra, tutte in bilico tra creazioni ex novo e recupero di una tradizione (relativamente recente o passata che sia), fosse assolutamente voluta e programmatica, un’alternativa alla già esplorata realtà di quel che nell’immaginario comune risponde al termine “neofolk”, di matrice per lo più britannica. Più che un’alternativa, in effetti, un percorso in parallelo.
Infatti è proprio in tal direzione che prosegue, a questo punto della notte, il meraviglioso declino. Ed è a questo punto della notte che comincia a concretizzarsi tra i presenti – specie dopo l’exploit di Fatur- quel che tutti temevamo da che abbiamo acquistato il biglietto per il festival, ovvero la stanchezza.
Trenta ore consecutive non sono un festival, sono una prova di forza, di devozione. Credo che coloro che hanno rinunciato del tutto al sonno si possano contare sulle dita di una mano, me esclusa, ahimè.
Ma a quel punto della notte ne avevo tutta l’intenzione.
Mi reco all’esterno ed un freddo assolutamente memorabile – che sembra essere compreso nel programma, considerato che lunedì stesso Roma s’è riappropriata di un clima più che mite- mi sveglia più del caffè che in quel momento desideravo al di sopra di ogni altra cosa.
Ci si sfida vicendevolmente a tenere gli occhi aperti, in quel dell’Init, consapevoli di essere alle porte del cuore pulsante della prima nottata, in attesa del momento in cui si ripongono le chitarre acustiche.
Tra noi e la tempesta elettronica si interpongono solo i Naevus.
Respiro per una manciata di minuti un pastiche di gelo, nicotina ed atmosfera che sa di sodalizio, di condivisione. Si improvvisano conversazioni, si scoprono piccoli scorci di vite altrui, si colgono diversi accenti e diverse lingue. E’ particolarmente bello, il popolo dell’Init.

Qualche riga sopra ho fatto riferimento alla scena britannica, per poi nominare i Naevus.
E’ con un fare composto, per quanto lievemente alterato, che Lloyd James si scusa per il ritardo, imputandolo ai disservizi delle compagnie low cost. Poi dà voce alla sua chitarra, con quell’incedere così riconoscibile, in bilico tra il folk più essenziale ed un nudo post punk.
La suddetta mancanza di caffeina mi spinge ad accasciarmi a lato del palco, ma non m’impedisce di emozionarmi nell’ascoltare i Naevus, uno dei gruppi che mi ha effettivamente spinta ad acquistare il biglietto.
E’ lapalissiano quanto sia fallimentare il mio tentativo di uscire dalla sfera emotiva nello scrivere la cronaca di queste trenta ore: volendo tuttavia adoperarmi nel rimanere nei ranghi, non posso non sottolineare che a quest’esibizione mancava qualcosa, rispetto alla resa su disco.
Il sound dei Naevus è effettivamente sintetico, ma nell’accezione positiva del termine. Sinceramente splendidi, svincolati da certi eccessi caricaturali che spesso possono imputarsi al neofolk, scevri da ogni forma di retorica.
Essenziali ma nondimeno profondi, con quella voce coriacea a scandagliare l'intimo dell'essere umano: dall’energica invettiva di Look to the state alla più placida -ma non per questo meno morbosa, incentrata com'è su un criptico leit motiv della band, il rapporto col cibo e soprattutto con quello che avviene dal momento in cui questo viene deglutito- Meat on meat. Dalla veemente Hasty Bastards alla cupa autoanalisi The body speaks in tongues.
Non cito a caso questi due pezzi: si tratta a mio avviso dei picchi di un concerto dal quale mi aspettavo moltissimo. E che, se moltissimo mi ha effettivamente dato, dal punto di vista emotivo, ha lasciato l'amaro in bocca per quanto riguarda la qualità effettiva dell'esecuzione.
Più che di qualità, probabilmente è corretto parlare di completezza: la mancanza delle percussioni (per non parlare degli interventi di violino e violoncello, la cui assenza è più comprensibile nel contesto di un live) toglie fiato ad un repertorio dalla brillante sezione ritmica. Il pur suggestivo basso di Joanne Owen, in sostanza, non riesce a bastarmi. E quello a cui davvero stentavo a credere era l’imbarazzante omogeneità dei pezzi.
Bene, concluso lo sporco lavoro del report, posso finalmente mettere nero su bianco che questo succedersi atono di ballate, questo scarno sovrapporsi di basso e chitarre, è riuscito, nella sua sorda bellezza, a farmi dimenticare del tutto il freddo ed il mio stato psicofisico ai limiti del collasso.
Non vorrei sbilanciarmi nel dire che in nuce ho trovato qualcosa di affine a Nick Cave e persino a certi episodi della discografia degli Swans. Un live che aveva tutte le carte in regola per confermare una passione, che a descriverlo a parole rasenta una monotonia affossante, ma che, a livello d’impatto emozionale, si è tradotto nell’impossibilità di trattenermi dal fare i complimenti ai Naevus, incrociandoli all’uscita del locale, verso le sei e mezza del mattino.

E di qui in poi, si smette ufficialmente di voler dormire. Rimaniamo in attesa che Albin Sunshine (?!) Julius salga in consolle, perfettamente coscienti che la sua camicia a grosse bolle blu elettrico non promette nulla di ordinario. Infatti parte con lo psych folk (tutto sommato prevedibile), vira sul beat, poi soul e… Franz Ferdinand! Peccato che non abbia sfoderato uno dei suoi ben noti cavalli di battaglia, Celentano.
A guardarsi attorno ci si accorge che i trait d’union del pubblico (già di per sé vari, non assimilabili ad una precisa “sottocultura”, il che è un bene) vanno gradualmente modificandosi. Si rarificano cravattini ed anfibi venti buchi, sempre più teste si coprono di cappucci in felpa. Le luci si fanno più imprecise e dinamiche, i movimenti più rapidi e nervosi, scende il livello di attenzione e sale quello di istintiva percezione del ritmo. La mia descrizione sfrutta dei clichè e me ne rendo conto, ma si limita a voler essere funzionale alla resa del dato sensibile, anzitutto visivo, di questo spontaneo atto camaleontico.
Il dj set di Mr. Hau Ruck! (sempre sia lodato) pare infatti un ben congegnato ponte tra l’universo fortemente folk dei concerti precedenti – non uno in cui mancasse una chitarra acustica, un’abbondante propensione al cantautorato più o meno puro- sino alla sfera elettronica. Dal cuore della notte al sorgere del sole, la parola “rave” è sulla bocca di tutti.
Si parte con il live-set di PRXS e Cutter, “ambasciatori” (le virgolette sottintendono la loro stessa definizione) di Stakanovismo, dispensatori di appuntamenti “teknoise” (cito nuovamente, per evitare di incolonnare una serie di etichette, da “elettronica” e “body music” ad “noise” a “industrial” e quant’altro, che comunque ammazzerebbero il carattere fortemente originale del progetto) noti ben oltre la capitale. Ferro battuto lisergico, impossibile rimanere fermi.

Segue l’olandese Legowelt, al secolo Danny Wolfers: ancora un sacrificio all’altare votivo dell’elettronica, un sacerdote dall’aria cerebrale ad officiare il rito. Non sono di certo un’esperta del genere e se mi dite “scena di Detroit” l’ultima cosa che mi viene in mente è un particolare sottobosco techno, ma, dopo un paio di brevi ricerche, dal basso della mia impreparazione posso affermare che un live-set di Legowelt risulta perfettamente coerente a quel che si scrive – per lo più entusiasticamente – di lui.
Elaborato ma nondimeno impattante, il set ci descrive storie e scenari sonori variegati ed evocativi, a tratti emozionali, a tratti più ironici, sino ad incupirsi in deflagrazioni epiche. E il livello non ha accennato a svigorirsi, persino stando ad un orecchio mal pratico come il mio.

Tutto sommato io stessa non accenno a svigorirmi, pur avendo ampiamente superato le sei del mattino. Tuttavia una serie di eventi (ivi comprese ben due ore e mezza di sonno!) mi trascinano via dall’Init fino all’una e mezzo del giorno seguente. Con mio estremo dispiacere, perdo l’appuntamento con Sieben: lascio la parola a Marco, che, dopo qualche ora di meritato riposo, riesce a recarsi all’Init in tempo per godersi il meraviglioso progetto del violinista Matt Howden.
(Giulia Mengozzi)

 

SIEBEN

Post Romantic Empire Final Fest
18 Ottobre 2009
Init Club, Roma

Testo: Marco Torresini
Foto: Michela Cuoghi

 

Sin dal momento in cui il palinsesto ufficiale dei concerti venne pubblicato, la cosa che più ci lasciò basiti fu l’orario in cui era stata collocata la performance di Sieben: le famigerate ore 13!
Famigerate, perché hanno costretto alla levataccia delle 11.30 (!!) tutti coloro, tra i quali il sottoscritto, che hanno tirato fino al mattino ma, al contempo, non volevano assolutamente perdersi i virtuosismi dell’ex violinista dei Sol Invictus.
Infatti questo di Sieben (al secolo Matt Howden) era uno degli appuntamenti più attesi e prestigiosi dell’intera kermesse, e pare quindi molto strano che sia stato relegato in un orario così penalizzante per tutti, artista e fruitori: l’unica spiegazione plausibile può venire dalla necessità del musicista inglese di prendere in tempo il volo pomeridiano per rincasare nella natia Sheffield entro sera perché, se i motivi dovessero essere altri, proprio non riusciamo a capacitarci di una scelta organizzativa così poco felice…
Howden si presenta puntuale sul palco con un look molto sobrio e in compagnia della sua inseparabile “Baby”, ovvero una LoopStation (o Loop Pedal che dir si voglia) in grado di replicare e riproporre all’infinito, anche simultaneamente, i molteplici suoni generati dalle corde del suo violino: sia nel modo più tradizionale (cioè utilizzando l’archetto), ma anche pizzicandole coi polpastrelli o addirittura soffiandoci sopra, ottenendo così i più disparati effetti sonori che riescono però magicamente a compensare l’assenza di sintetizzatore, basso e batteria, sostituendosi di fatto ad essi.
Matt diviene così una sorta di one-man-orchestra, modernissimo esponente di quella schiera di guitti-musicisti che, nelle fiere paesane di 50 anni fa, riuscivano a suonare all’unisono 4-5 strumenti diversi (mi ha fatto venire in mente Totò armato di fisarmonica, piatti legati alle ginocchia, grancassa sulla schiena e sonagli sul capo).
I brani proposti nell’ora abbondante di concerto spaziano dagli album storici “The line and the hook”, “”Sex & wildflowers” e “Ogham inside the night” fino ai più recenti “Desire rites” e “As they should sound”, ottenendo sempre calorosi consensi dallo sparuto pubblico presente (capitanato in prima fila da un attentissimo, e probabilmente affamato – ma il capriolo può attendere -, David Tibet), chissà se conquistato più dall’inusuale tecnica e modalità di esecuzione del nostro istrione o se, più semplicemente, dalla bellezza delle melodie create dalla sua indiscutibile bravura (nonché amplificate dalla notevole capacità di riproduzione dei suoni garantitagli dalla sua amata “Baby”).
La concessione del bis, richiesto a gran voce dal pubblico unanime, suggella e al contempo chiude quella che è indubbiamente stata una performance di altissimo livello.

 

Torno appena in tempo per il pranzo post romantico, capriolo, neanche a dirlo - David Tibet sembra gradire. Ahimè conosco i limiti del mio giovane corpo e so che ingurgitare della cacciagione appena sveglia sarebbe letale anche per una sostenitrice delle colazioni proteiche come la sottoscritta. Ed è per lo stesso motivo che decido di glissare bellamente la proiezione del tanto chiacchierato "Nekromantik", dedicando quella fetta di pomeriggio al complesso tentativo di riconciliarmi con la terra sostituendo dieci centrimetri di tacco con la rassicurante suola di un paio di anfibi. Mi allontano nuovamente dall'Init: al mio ritorno raccolgo una serie di pareri discordanti riguardo al controverso film girato nel 1987 da Jörg Buttgereit. Taluni l'hanno trovato morboso e disturbante -che immagino sia esattamente quello che un film del genere pretende di essere-, altri inutilmente morboso e disturbante. Sento più volte pronunciare "culto", "capolavoro" e "stronzata".
Personalmente nutro una profondissima e consapevole indifferenza nei confronti del cinema horror, del necro-horror, dello splatter e forse anche nei confronti del 60% di tutta la cinematografia tedesca. Non sono riuscita a carpire neanche un timido parere sulla sonorizzazione, l'unica cosa che in quel momento avrebbe potuto distrarmi dall'acquisto compulsivo di dischi. Quanto all'esibizione del granitico Steven Severin, giusto per rimanere in tema di sonorizzazioni, m'è parso di trovarmi innanzi ad un personaggio dal background più che promettente (dai Banshees alle collaborazioni con Lydia Lunch, Robert Smith... viene quasi da chiedersi se quest'uomo sia un musicista o lo spirito santo del post punk), impegnato in un esercizio di stile. Il suo commento musicale alla proiezione dello storico "Il gabinetto del dottor Caligari" mi risulta perfettamente coerente a quel che è il mio rapporto con l'espressionismo tedesco: una fruizione artistica suggestiva, della quale riconosco il valore, che compiace il senso estetico ma che, a conti fatti, non riesce a far scaturire in me nulla di neanche lontanamente assimilabile ad un'emozione. Ma se nel caso dell'espressionismo questo avviene per la mia incapacità di apprezzarne i tratti più eccessivi, l'enfatizzazione ai limiti della caricatura (per quanto contestualizzandoli e comprendendone gli intenti), parlando di Severin il problema si ribalta diametralmente. Tanto suggestivo quanto asettico.
Non trovo assolutamente nulla di asettico (magari) nè tantomeno di post-romantico nel ristorante cinese nel quale la delegazione milanese decide di rifocillarsi e lo cito solo per giustificare l'assenza di accenni alla triade Liles-Beauchamp e Fabrizio Modenese Palumbo - vedi al brillante capitolo Larsen: barattato con un piatto di verdure saltate. Non credo sia stata una scelta oculata.

Torno all'Init e trovo Alex Neilson sul palco: e scatta definitivamente.
Scatta il conto alla rovescia verso la fine, il conto alla rovescia verso i Current 93. Avendo già avuto modo di assistere alla precedente data italiana, in quel di Torino, ho già un'idea di cosa aspettarmi da questo giovane quanto talentuoso batterista. Lavinia Blackwall, invece, rappresenta l'incognita.
Sono le due metà del progetto Directing Hand. In capo a cinque minuti l'abbigliamento di Lavinia le vale il soprannome di "Barbie Diamanda Galas", il che, se non risulta proprio un encomio al suo buon gusto, nondimeno chiarifica il genere di sperimentazioni vocali che va sovrapponendo alla brillante base ritmica di Neilson.
E lo fa caricando il suo virtuosismo di enfasi espressionistica, a contrasto con la sua assoluta immobilità, il vago sguardo ceruleo. Arabeschi lamentosi - nel senso positivo del termine s'intende- s'inerpicano in un crescendo di sospiri furiosi e nevrotici sino ad acutissime grida. E' proprio in questi picchi stridenti che a mio avviso le due parti si giustappongono nella maniera più intensa, sfugge la completa lucidità nell'ascolto, il suono si fa impulso.Folk dell'Es. Lavinia non riesce a convincermi integralmente, nella fattispecie trovo che la sua performance si appiattisca non poco quando "abbassa i toni", quando si trattiene dallo strepitare e torna nei ranghi dei vocalizzi. Alex è perfetto: beats like a fatalistic drum, se posso permettermi di rubare un verso di Eliot per definire questo giovane batterista dallo sguardo spaesato e il colpo impeccabile.
Alex Neilson accompagna poi Baby Dee per un paio di brani. Un altro membro della presente formazione dei Current 93 si esibisce davanti ad un pubblico sempre più compatto e numeroso: ci avviciniamo gradualmente al bordo del palco, laddove fino a qualche ora prima ci concedevamo la libertà di girovagare per gli spazi dell'Init, persino andare e tornare dal locale.
Baby Dee è purtroppo nascosta dall'ingombrante pianoforte - non che personalmente avverta l'urgenza di osservare quella sorta di carcassa di dalmata che si porta addosso, eh- ma non appena dà voce al suo strumento ci si rende conto che la si potrebbe riconoscere ad occhi chiusi. Non so se sia Roma a suggerirmi una vena profondamente felliniana nel descrivere il suo personaggio. Baby Dee ha il physique du role del freak d'un varietà d'antan, suona con ironia da cabaret dei bassifondi e canta (e come canta!) di un'umanità miserevole e commovente, delineando in teneri affreschi episodi spietati di vita vissuta.

Ultimo turn over. Prende posto sul palco una figura ben diversa dalla pantagruelica mole di Baby Dee. Falcata elegante su tacchi a spillo, gambe affusolate in calzamaglia nera. Volto esaperatamente pittato. Klaus Nomi redivivo?
Ernesto Tomasini ha un'estensione vocale di quattro ottave: non ce ne dà saggio sin da subito, lo spettacolo vede quale incipit la lettura della traduzione di "In league with Satan" dei Venom. Poi, accompagnato da Liles, Palumbo, Northgate e Beauchamp ci stupisce con le sue capacità vocali e - e soprattutto- interpretative. E' l'arrivo del compositore OTHON, al cui disco hanno collaborato personaggi del calibro di Marc Almond e David Tibet stesso, a far toccare il vertice della performance. Il sodalizio con Tomasini da un paio d'anni a questa parte è valso ad entrambi il favore della critica: il medesimo riscontro positivo lo ottengono dal pubblico dell'Init, che al termine di quest'intenso atto di teatro geminato in musica, scoppia in un applauso senza riserve.
Dopo tutto questo, dopo trenta fulgide ore, sarebbe davvero scorretto considerare il PRE Final Fest alla stregua di un corollario alla data romana dei Current 93. Per cui non interpretatemi in tal senso, se ora scrivo che la lunghezza del turn over a seguire è stata assolutamente esasperante. Il cortile dell'Init è deserto, le circa cinquecento persone presenti all'interno sono calcate sotto il palco, strette al capezzale dell'Impero. L'estrema unzione la officia niente meno che un senile Robert Englund, che ci appare in video, finendo per sfoderare un'ennesima volta il celebre guanto di Freddy Krueger: del resto non era proprio lui "il mostro dei sogni"?

C'è qualcosa di onirico e spaventoso anche nel modo in cui un'impetuosa cavalcata va a coprire le note di "Afternoon delight", giuliva canzonetta della Starland Vocal Band con la quale David Tibet usa aprire i suoi ultimi concerti; l'avevo pensato anche nell'assistere alla data torinese dei Current 93.
E così come sul palco del teatro Alfieri, appare la luna ed appaiono le costellazioni. Si muovono con lentezza esasperante sullo schermo, ci guardano col loro sorriso sghembo, così come sono state dipinte da David Tibet per la copertina di "Aleph at hallucinatory mountain".
Aleph, che si concretizza sul medesimo palco, nelle persone di Andrew Liles, Alex Neilson, James Blackshawn, Keith Wood e naturalmente, sempre nella sua improbabile mise, Baby Dee. E poi Tibet: scalzo, la tesa del cappello calata sullo sguardo a metà tra l’ispirato ed il sardonico.
Parte in sordina “Invocation of almost”, ma con l’affastellarsi delle note l’atmosfera e le sonorità vanno in crescendo, s’inaspriscono, si gonfiano come vele, col pianoforte a procedere nevrotico –così come nevrotiche sono le movenze di Baby Dee e del medesimo Tibet- in una sorta di giustapposizione alla massa compatta e magmatica delle corde. Ed “Invocation of almost” assume proporzioni sempre più magniloquenti, un’esplosione corale innescata da parti disgiunte, coronata dalla gestualità caricaturale e caustica di Tibet, capace e di strappare sorrisi e di imporre un’ottemperante attenzione.
Il finale è letteralmente frenetico, il pezzo approda ad un epilogo rutilante, Tibet si muove di conseguenza, trasformando il palco sotto i suoi piedi in una sorta di sedia elettrica.
Altri due lisergici brani estrapolati da “Aleph at hallucinatory mountain” e l’impronta del live appare chiara: l’indirizzo è quello dell’ultimo album.
I Current di "Aleph..." suonano diversi rispetto al passato ma anche rispetto a se stessi: le tracce sono reinterpretate, stravolte, a tratti irriconoscibili senza far riferimento ai meravigliosi testi, che Tibet canta… o latra, o sussurra, o declama, a seconda dei casi. Cita la “gnostic fox” infondendovi un languore che sfocia nella tenerezza, poi lo vediamo astenersi dal respirare prima di pronunciare un’infinitamente ieratico “I am Aleph, I am Adam”. Laddove su disco ringhiava, peraltro.
Sulla chiusura di Urshadow la centralità della chitarra di James Blackshaw è totale: Tibet s’affaccia dal bordo del palco e pare chiederci, sfinito: “Surely we are living in a dream?”
Surely.
La versione di Black ships ate the sky è la medesima effettuata a Torino (in effetti i riarrangiamenti sono pressochè identici), forse ancor più in bilico tra una facciata ludica, psichedelica e danzereccia e certi tratti tanto indelicati, nebulosi ed alienanti. Una Black ships ate the sky sempre in grado di evocare quel senso d'incipiente disastro, che fa squillare l'attributo che più è congruo a queste pur mutevoli sonorità: apocalittico.
Tibet scende tra noi, che immediatamente gli permettiamo il passaggio, tornato sul palco dedica il brano successivo (Niemandswasser) ad una giovane amica russa alla quale ha deputato l'introduzione del concerto. Arriva addirittura a commuoversi, forse finge di farlo: perchè indagare?
E noi l'osserviamo, forse dimentichi del fatto che si tratta dello stesso uomo che sino a poche ore prima mangiava capriolo servendosi al nostro medesimo buffet.
I forti estimatori dei Current 93, del resto, sono generalmente affetti da una comune lieve tendenza all'idolatria. Roma non è Torino, l'Init non è un teatro. Nulla togliendo alla data precedente (che peraltro a livello esecutivo non s'è discostata granchè da quella del 19 Ottobre), non posso fare a meno di sottolineare come le particolari condizioni del PRE (dalle caratteristiche del palco, al legame tra Tibet e gli organizzatori, passando per la stanchezza diffusa...) enfatizzassero la percezione della dimensione rituale propria del concerto.
Tanto che quando il nostro ierofante ci sorprende chiudendo con Oh coal black smith, non uno dei devoti manca di cantare all'unisono con Tibet, che nel mentre inscena il suo consueto teatrino zoomorfo.
Oh coal black smith è l'ultimo sogno. O è il requiem all'ultimo sogno?
Il sogno è una terra laddove manifestazioni musicali così diverse non appaiono giustapposte l'un l'altra, ma dov'è piuttosto evidente la volontà di delineare un trait d'union concreto e solo poi concettualizzato, quando ahinoi è ben più frequente imbattersi nel processo inverso. Il sogno è vedere approdare in questa terra centinaia di persone provenienti da diversi paesi, da diverse città, da diversi background culturali e musicali. Il sogno sono premesse artisticamente ed intellettualmente oneste nel decidere di organizzare un festival, la cura nel realizzarle ed in ultimo i risultati ottenuti.
Già profilavo queste lande in apertura del presente lungo ed incompleto racconto, citando "The Shining shining world", il medesimo pezzo dal quale è stato estrapolato il motto "vieni, ti mostrerò dove vanno i sogni quando muoiono".
La terra in questione è il Post Romantic Empire, che si scatena nella sua totentanz ed ora, splendidamente, spira.
(Giulia Mengozzi)