"There,
oh there, there is the land
All
the musics shall combine"
La
sensazione era esattamente quella. Quella che ci avevano promesso,
intendo.
Da mesi non era raro imbattersi, navigando per pagine web
a carattere musicale ed affini, nelle tracce della raffinata
propaganda del Post Romantic Empire Final Fest.
Cartoline
da mondi trascorsi (o, forse, a venire?), i manifesti, oltre
a rappresentare un supporto visivo all'altezza della -tanta-
sostanza, ci preannunciavano quello che sarebbe stato il leit
motiv delle trenta ore in questione: la fine.
E
l'Init è dichiarato il luogo di sepoltura dei sogni,
il tardo pomeriggio del diciassette Ottobre l'ora designata
quale inizio di un lungo crepuscolo: da "The shining shining
world" viene estrapolato il motto di questo idilliaco gioco
al massacro.
"Come I shall show you where dreams go to when they die"
Ma
sono duemila anni che l'uomo si inerpica nel fallimentare
tentativo di arrivare preparato alla fine.
Una
manciata di minuti prima dell'ingresso sul palco dell'ensemble
che al momento risponde al nome di Current 93, ho preso -e
non ero certo l'unica- coscienza del fatto che i sogni erano
ormai agli sgoccioli, al termine della loro fulgida agonia.
Dopo trenta ore ed un'attesa di cinque mesi, risulta difficile
abituarsi e rassegnarsi all'idea.
Ci
avevano promesso il sentore d'una fine incombente, la paura
del termine ultimo amalgamata all'impazienza di vivere quell'unico
giorno lungo trenta ore.
POST
ROMANTIC EMPIRE FINAL FESTIVAL
17 / 18 Ottobre
2009, INIT CLUB,
Roma
Testo:
Giulia Mengozzi
Foto: Michela Cuoghi
L'Init
Club si trova al termine di una breve quanto ripida salita,
laddove via della Stazione Tuscolana viene attraversata dall'acqua
Claudia e si getta poi sui binari della vecchia ferrovia.
Riconosci non tanto la location, ma l'evento in sé,
dal fatto che i laterizi dell'acquedotto di cui sopra siano
illuminati di rosa ad intermittenza, il medesimo fil-rosèe
dei volantini, virtuali o no, visionati ormai decine di volte.
Lo riconosci dallo stendardo nero appeso all'ingresso: reca
la scritta "IMPERO", in rosso, mal eseguita, insegna di un'estetica
che andrà poi a ribaltarsi all'interno. Ma per scoprirlo
dovremo ancora attendere una quarantina di minuti considerato
che l'evento vero e proprio, beh, lo riconosci da un'interminabile
fila.
Lì per lì mi meraviglio, non mi aspettavo una
tale affluenza e ne rimango piacevolmente colpita, al di là
del clima ingeneroso che mi spinge a non desiderare altro
che trascinare le mie ben poco coperte estremità inferiori
in prossimità del palco - leggi: al caldo.
Scopriamo, ad onor del vero, che la fila è in realtà
un ritardo dovuto a chissà quale debacle organizzativa
che i ragazzi del PRE cercano di rattoppare distribuendo graziose
spillette, ma tant'è: tra attese, attestazione di nominativi
e quant'altro riesco ad entrare solo sul concludersi della
prima esibizione, sicchè, poco diligentemente, mi metto
a girovagare per la location.
E me ne pento, in effetti, vista la bellezza delle architetture
elettroniche dei MIR,
ricercate ma di immediata metabolizzazione.
Faccio un acquisto all'acqua di rose (le spese più
ingenti richiedono una mezza giornata di riflessione) ai forniti
stand di Hellnation, Centre Of Wood, Mannequin Mailorder e
Trips und Traume e poi mi getto nuovamente all'interno, stavolta
ben intenzionata a fruire a dovere delle prime portate di
quel succulento banchetto che è il PRE Final Fest.
Il... progetto? Collettivo? Divertissement? Qualsiasi diamine
sia la definizione adatta a "Zampe
Rotte",
per me è l'inizio della fine: le sonorità ora
aspre ora magmatiche ben si sposano alla percezione dell'interno
dell'Init come un utero di pece addobbato a festa. Le due
ragazze, Mushy e Lili Refrain, ci distribuiscono sorridendo
palloncini neri e piume rosa: è davvero spontaneo eleggerle
a vestali di quest'intro all'apocalisse, specie considerata
la portata del personaggio che ora s'impossessa del microfono.
Mentre gonfio un palloncino ne riconosco la voce, alzo gli
occhi e al di là della circonferenza di plastica scura
vedo Spectre: al secolo Marcello Fraioli, null'altro che Ain
Soph nel mio cuore. Una voce imperfetta ed evocativa, vissuta
quanto i suoi tratti, carica di retaggi musicali, culturali
e poetici che perfettamente si combinano alle sperimentazioni
industrial che sarebbe riduttivo definire di background.
Zampe Rotte ci mette innanzi ad un magma sonoro che non ha
nulla di quel che personalmente recepisco come il tallone
d'Achille del grosso della scena ambient, ovverosia una bassa
percentuale di fruibilità sulle lunghe distanze, una
certa alienata noia che subentra dopo pochi minuti d'interesse
devoto per lo più al lato concettuale.
Zampe Rotte non ci porta ad un'astrazione autistica, se non
quel minimo necessario a godersi un'esperienza sonora dal
carattere così smaccatamente espressionista ed umorale
- a livello percettivo, s'intende. Zampe Rotte tiene svegli,
nel senso meno immediato del termine: non mi sto limitando
a dire che non fa sbadigliare per la noia, miro ad specificare
la portata "svegliativa" della loro musica, che mai vede crollare
una struttura discreta ma sempre percettibile, pur nell'intersecarsi
con la voce e gli atteggiamenti menadici di Lili Refrain -
deliziosamente sanguinea. Onore al merito.
A conclusione, dopo -ahinoi- un intoppo dovuto a questioni
tecniche, Spectre ci regala una gucciniana "Avvelenata"
più inaspettata e dissonante che mai. Solo una volta
tornata a Milano avrò modo di scoprire, leggendo un'intervista
a Giulio di Mauro, che per l'organizzazione sarebbe stato
un sogno poter ospitare Guccini stesso.
Non è un nome a tal punto noto, quello di
Federico Fiumani, ma anch'egli
a modo suo incarna una leggenda. La Firenze degli anni '80,
la new wave nostrana nell'immaginario collettivo e via in
un susseguirsi di elementi che vanno a creare il nostalgico
collage che è il ricordo dei Diaframma. Fiumani ne
è innegabilmente la spina dorsale, col suo carisma
ruvido e la sua presenza assoluta, che vanno a compensare
quella che, in effetti, non è stata proprio una performance
memorabile. Ci propone la consueta antologia del repertorio
dei Diaframma (con consueto picco emotivo sulle altrettanto
consuete Siberia, Tre volte lacrima, Gennaio, più un
delirante medley finale di tre pezzi condensati), eseguita
unicamente col supporto della sua chitarra elettrica.
In effetti laddove è da localizzarsi la debolezza del
live, si può anche trovare la chiave per rivalutarlo,
specie col senno del poi, se decontestualizzato da un tour
de force tanto ricco di spunti: chi altri se non il nostro
“consueto” Fiumani avrebbe affrontato in solitudine un pubblico
già sul punto di farsi la bocca con l’offerta del PRE?
Lì per lì ho sorriso, ma c’è da dire che, alla
sesta volta che lo vedo sul palco, Fiumani m’ha conquistata
in differita.
Musica classica, come ad ogni cambio. Palloncini neri scoppiano
di tanto in tanto, calpestati dalle suole della folla che
va accalcandosi sotto il palco, dal bordo del quale s’affacciano
le cosce divaricate di un manichino. Palco che è ancora
vetrina di sonorità legate al folk nostrano.
O per meglio dire neo-folk: il trattino è zelante,
ma voluto.
Da uno degli episodi più rappresentativi della new
wave italiana si passa infatti alla (ri)proposta di sapore
folk capitolino degli splendidi Ardecore. L’alternarsi delle
voci di Sara Dietrich e Giampaolo Felici (vedi al brillante
capitolo Zu, peraltro)
l’immagine di una Roma d’altri tempi ma quanto mai pulsante,
ora nostalgica e malinconica, ora brutale e tragica, quotidiana
e al contempo atemporale.
Da lacrime agli occhi, peraltro, l’intervento di David Tibet,
non annunciato ma decisamente nell’aria: nello specifico,
ci era stato accennato quello stesso pomeriggio, durante la
visita alla personale di Tibet al Motel Salieri.
Le due voci vanno intersecandosi, in un sovrapporsi di cadenza
romanaccia vera e fittizia, del canto cristallino ed acuto
di Sara e quel sibilo arido e toccante al quale Tibet ci ha
abituati negli anni.
Pare che ancor più di Tibet, il pubblico dell’Init
si faccia galvanizzare dall’apparizione di una Nada
Malanima particolarmente in forma, che esegue i
suoi celeberrimi cavalli di battaglia e poi insiste per cantare
“Fiore de gioventù” degli Ardecore.
E’ un crescendo toccante, al termine del quale partono spontanei
meritati scrosci di applausi. E dalla Roma degli stornelli
si va alla Roma (non meno autentica, a ben vedere) dei “maledetti
feticisti”.
Salgono sul palco gli Spiritual Front:
l’Init è gremito e la maggior parte degli astanti conosce
a memoria i brani della band capitanata da Simone Salvatori.
Uso il termine “capitanata” per pura formalità. Al
di là dello sferzante carisma di Hellvis (in qualità
di musicista ma anche
in virtù della sua presenza sul palco), che catalizza
attenzione ed una gragnola di lingerie, gli Spiritual si confermano
quali un quartetto dal suono composto e compatto, in cui ogni
elemento compete a creare quella particolare atmosfera che
è ormai loro cifra stilistica: tra mitteleuropa e deserto
del Mojave, il tutto stretto in una fumosa locanda romana.
Voglio dimostrarmi assolutamente incontentabile nel sollevare
un piccolo cruccio personale: ho sperato fino all’ultimo di
veder comparire sul palco i Naevus, vista la precedente collaborazione
per lo split “Bedtime/Badtime”. Ma questo era proprio un desiderio
da “maledetti feticisti”, per riciclare nuovamente le parole
con le quali Simone ha reagito al terzo paio di mutandine
volate sul palco.
Rispetto alla raffinata iconografia dell’Impero (che effettivamente
non riesco a smettere di tirare in ballo, tanto m’ha colpito
quell’affastellarsi di daini e Jean Fontaine, di isole deserte
e fronde boschive, il tutto declinato in quella particolare
tonalità di rosa che qui si fa dichiaratamente simbolo
del crepuscolo, della fine), non riesco ad immagine nulla
di più stridente della comparsa di Danilo
Fatur.
Assolutamente, consapevolmente e credo volutamente laido.
Violento e provocatore già solo per il physique du
role, questa mole d’essere umano e ferraglia è quel
che non stenterei a definire un pezzo di storia.
Eletric people, on the road again!
Non so quante volte ho ascoltato “Canzoni Preghiere e Danze
del II Millennio”, forse l’album meno considerato dei CCCP
e forse quello a cui, personalmente, sono particolarmente
legata.
E non so quante volte ho ascoltato quel totale delirio che
è “Vota FATUR”, immaginando lerce vie elettrificate
a Bangkok, immaginando tailandesi efebiche proporsi al Fatur
dell’immaginario collettivo, il nerboruto “braccio che muove
il telaio”, la giustapposizione (im)perfetta alla grazia di
Annarella.
Non si può non citare il capitolo CCCP nell’approcciarsi
alla performance vista in quel dell’Init: “INDIETRO NON SI
TORNA!” recita un flyer pubblicitario dello stesso Fatur e
dal momento che non si torna indietro ed i CCCP sono caduti
assieme al muro di Berlino, siamo di nuovo qui per celebrare
la fine.
Che dalla fine a questa parte intercorrano vent'anni poco
importa, sfido chiunque ad essersi approcciato a Fatur nella
sua individualità, prescindendo dai CCCP. Non l’ha
fatto lui stesso, dal momento in cui il finale ed il climax
della sua esibizione è stata una versione folle e dissacrante
di “Spara Juri”. Apologia totale della fine: dal pubblico,
qualcuno gli consiglia di spararsi. Un suggerimento a dir
poco iconoclasta.
Il vero atto finale e post romantico dei CCCP, ovvero l’esibizione
innanzi all’Armata Rossa, è indubbiamente da identificarsi
ben lontano dall’Init del 2009. Eppure è godibile,
quest’ennesima fine.
Si chiude qui l’ouverture tutta italiana del festival: Giulio
Di Mauro stesso dichiarava in un’intervista come questa proposta
di sonorità di casa nostra, tutte in bilico tra creazioni
ex novo e recupero di una tradizione (relativamente recente
o passata che sia), fosse assolutamente voluta e programmatica,
un’alternativa alla già esplorata realtà di
quel che nell’immaginario comune risponde al termine “neofolk”,
di matrice per lo più britannica. Più che un’alternativa,
in effetti, un percorso in parallelo.
Infatti è proprio in tal direzione che prosegue, a
questo punto della notte, il meraviglioso declino. Ed è
a questo punto della notte che comincia a concretizzarsi tra
i presenti – specie dopo l’exploit di Fatur- quel che tutti
temevamo da che abbiamo acquistato il biglietto per il festival,
ovvero la stanchezza.
Trenta ore consecutive non sono un festival, sono una prova
di forza, di devozione. Credo che coloro che hanno rinunciato
del tutto al sonno si possano contare sulle dita di una mano,
me esclusa, ahimè.
Ma a quel punto della notte ne avevo tutta l’intenzione.
Mi reco all’esterno ed un freddo assolutamente memorabile
– che sembra essere compreso nel programma, considerato che
lunedì stesso Roma s’è riappropriata di un clima più
che mite- mi sveglia più del caffè che in quel
momento desideravo al di sopra di ogni altra cosa.
Ci si sfida vicendevolmente a tenere gli occhi aperti, in
quel dell’Init, consapevoli di essere alle porte del cuore
pulsante della prima nottata, in attesa del momento in cui
si ripongono le chitarre acustiche.
Tra noi e la tempesta elettronica si interpongono solo i Naevus.
Respiro per una manciata di minuti un pastiche di gelo, nicotina
ed atmosfera che sa di sodalizio, di condivisione. Si improvvisano
conversazioni, si scoprono piccoli scorci di vite altrui,
si colgono diversi accenti e diverse lingue. E’ particolarmente
bello, il popolo dell’Init.
Qualche riga sopra ho fatto riferimento alla scena britannica,
per poi nominare i Naevus.
E’ con un fare composto, per quanto lievemente alterato, che
Lloyd James si scusa per il ritardo, imputandolo ai disservizi
delle compagnie low cost. Poi dà
voce alla sua chitarra, con quell’incedere così riconoscibile,
in bilico tra il folk più essenziale ed un nudo post
punk.
La suddetta mancanza di caffeina mi spinge ad accasciarmi
a lato del palco, ma non m’impedisce di emozionarmi nell’ascoltare
i Naevus, uno dei gruppi che mi ha effettivamente spinta ad
acquistare il biglietto.
E’ lapalissiano quanto sia fallimentare il mio tentativo di
uscire dalla sfera emotiva nello scrivere la cronaca di queste
trenta ore: volendo tuttavia adoperarmi nel rimanere nei ranghi,
non posso non sottolineare che a quest’esibizione mancava
qualcosa, rispetto alla resa su disco.
Il sound dei Naevus è effettivamente sintetico, ma
nell’accezione positiva del termine. Sinceramente splendidi,
svincolati da certi eccessi caricaturali che spesso possono
imputarsi al neofolk, scevri da ogni forma di retorica.
Essenziali ma nondimeno profondi, con quella voce coriacea
a scandagliare l'intimo dell'essere umano: dall’energica invettiva
di Look to the state alla più placida -ma non per questo
meno morbosa, incentrata com'è su un criptico leit
motiv della band, il rapporto col cibo e soprattutto con quello
che avviene dal momento in cui questo viene deglutito- Meat
on meat. Dalla veemente Hasty Bastards alla cupa autoanalisi
The body speaks in tongues.
Non cito a caso questi due pezzi: si tratta a mio avviso dei
picchi di un concerto dal quale mi aspettavo moltissimo. E
che, se moltissimo mi ha effettivamente dato, dal punto di
vista emotivo, ha lasciato l'amaro in bocca per quanto riguarda
la qualità effettiva dell'esecuzione.
Più che di qualità, probabilmente è corretto
parlare di completezza: la mancanza delle percussioni (per
non parlare degli interventi di violino e violoncello, la
cui assenza è più comprensibile nel contesto
di un live) toglie fiato ad un repertorio dalla brillante
sezione ritmica. Il pur suggestivo basso di Joanne Owen, in
sostanza, non riesce a bastarmi. E quello a cui davvero stentavo
a credere era l’imbarazzante omogeneità dei pezzi.
Bene, concluso lo sporco lavoro del report, posso finalmente
mettere nero su bianco che questo succedersi atono di ballate,
questo scarno sovrapporsi di basso e chitarre, è riuscito,
nella sua sorda bellezza, a farmi dimenticare del tutto il
freddo ed il mio stato psicofisico ai limiti del collasso.
Non vorrei sbilanciarmi nel dire che in nuce ho trovato qualcosa
di affine a Nick Cave e persino a certi episodi della discografia
degli Swans. Un live che aveva tutte le carte in regola per
confermare una passione, che a descriverlo a parole rasenta
una monotonia affossante, ma che, a livello d’impatto emozionale,
si è tradotto nell’impossibilità di trattenermi
dal fare i complimenti ai Naevus, incrociandoli all’uscita
del locale, verso le sei e mezza del mattino.
E di qui
in poi, si smette ufficialmente di voler dormire. Rimaniamo
in attesa che Albin Sunshine
(?!) Julius salga in consolle,
perfettamente coscienti che la sua camicia a grosse bolle
blu elettrico non promette nulla di ordinario. Infatti parte
con lo psych folk (tutto sommato prevedibile), vira sul beat,
poi soul e… Franz Ferdinand! Peccato che non abbia sfoderato
uno dei
suoi ben noti cavalli di battaglia, Celentano.
A guardarsi
attorno ci si accorge che i trait d’union del pubblico (già
di per sé vari, non assimilabili ad una precisa “sottocultura”,
il che è un bene) vanno gradualmente modificandosi.
Si rarificano cravattini ed anfibi venti buchi, sempre più
teste si coprono di cappucci in felpa. Le luci si fanno più
imprecise e dinamiche, i movimenti più rapidi e nervosi,
scende il livello di attenzione e sale quello di istintiva
percezione del ritmo. La mia descrizione sfrutta dei clichè
e me ne rendo conto, ma si limita a voler essere funzionale
alla resa del dato sensibile, anzitutto visivo, di questo
spontaneo atto camaleontico.
Il dj set
di Mr. Hau Ruck! (sempre sia lodato) pare infatti un ben congegnato
ponte tra l’universo fortemente folk dei concerti precedenti
– non uno in cui mancasse una chitarra acustica, un’abbondante
propensione al cantautorato più o meno puro- sino alla
sfera elettronica. Dal cuore della notte al sorgere del sole,
la parola “rave” è sulla bocca di tutti.
Si parte
con il live-set di PRXS e Cutter, “ambasciatori” (le virgolette
sottintendono la loro stessa definizione) di Stakanovismo,
dispensatori di appuntamenti “teknoise” (cito nuovamente,
per evitare di incolonnare una serie di etichette, da “elettronica”
e “body music” ad “noise” a “industrial” e quant’altro, che
comunque ammazzerebbero il carattere fortemente originale
del progetto) noti ben oltre la capitale. Ferro battuto lisergico,
impossibile rimanere fermi.
Segue l’olandese
Legowelt, al secolo Danny
Wolfers: ancora un sacrificio all’altare votivo dell’elettronica,
un sacerdote dall’aria cerebrale ad officiare il rito. Non
sono di certo un’esperta del genere e se mi dite “scena di
Detroit” l’ultima cosa che mi viene in mente è un particolare
sottobosco techno, ma, dopo un paio di brevi ricerche, dal
basso della mia impreparazione posso affermare che un live-set
di Legowelt risulta perfettamente coerente a quel che si scrive
– per lo più entusiasticamente – di lui.
Elaborato ma nondimeno impattante, il set ci descrive storie
e scenari sonori variegati ed evocativi, a tratti emozionali,
a tratti più ironici, sino ad incupirsi in deflagrazioni
epiche. E il livello non ha accennato a svigorirsi, persino
stando ad un orecchio mal pratico come il mio.
Tutto
sommato io stessa non accenno a svigorirmi, pur avendo ampiamente
superato le sei del mattino. Tuttavia una serie di eventi
(ivi comprese ben due ore e mezza di sonno!) mi trascinano
via dall’Init fino all’una e mezzo del giorno seguente. Con
mio estremo dispiacere, perdo l’appuntamento con Sieben: lascio
la parola a Marco, che, dopo qualche ora di meritato riposo,
riesce a recarsi all’Init in tempo per godersi il meraviglioso
progetto del violinista Matt Howden.
(Giulia Mengozzi)
SIEBEN
Post
Romantic Empire Final Fest
18 Ottobre 2009
Init Club, Roma
Testo:
Marco Torresini
Foto:
Michela Cuoghi
Sin
dal momento in cui il palinsesto ufficiale dei concerti
venne pubblicato, la cosa che più ci lasciò
basiti fu l’orario in cui era stata collocata la performance
di Sieben: le famigerate ore 13!
Famigerate,
perché hanno costretto alla levataccia delle
11.30 (!!) tutti coloro, tra
i quali il sottoscritto, che hanno tirato fino al mattino
ma, al contempo, non volevano assolutamente perdersi
i virtuosismi dell’ex violinista dei Sol Invictus.
Infatti
questo di Sieben (al secolo Matt Howden) era uno degli
appuntamenti più attesi e prestigiosi dell’intera
kermesse, e pare quindi molto strano che sia stato relegato
in un orario così penalizzante per tutti, artista
e fruitori: l’unica spiegazione plausibile può
venire dalla necessità del musicista inglese
di prendere in tempo il volo pomeridiano per rincasare
nella natia Sheffield entro sera perché, se i
motivi dovessero essere altri, proprio non riusciamo
a capacitarci di una scelta organizzativa così
poco felice…
Howden
si presenta puntuale sul palco con un look molto sobrio
e in compagnia della sua inseparabile “Baby”, ovvero
una LoopStation (o Loop Pedal che dir si voglia) in
grado di replicare e riproporre all’infinito, anche
simultaneamente, i molteplici suoni generati dalle corde
del suo violino: sia nel modo più tradizionale
(cioè utilizzando l’archetto), ma anche pizzicandole
coi polpastrelli o addirittura soffiandoci sopra, ottenendo
così i più disparati effetti sonori che
riescono però magicamente a compensare l’assenza
di sintetizzatore, basso e batteria, sostituendosi di
fatto ad essi.
Matt
diviene così una sorta di one-man-orchestra,
modernissimo esponente di quella schiera di guitti-musicisti
che, nelle fiere paesane di 50 anni fa, riuscivano a
suonare all’unisono 4-5 strumenti diversi (mi ha fatto
venire in mente Totò armato di fisarmonica, piatti
legati alle ginocchia, grancassa sulla schiena e sonagli
sul capo).
I
brani proposti nell’ora abbondante di concerto spaziano
dagli album storici “The line and the hook”, “”Sex &
wildflowers” e “Ogham inside the night” fino ai più
recenti “Desire rites” e “As they should sound”, ottenendo
sempre calorosi consensi dallo sparuto pubblico presente
(capitanato in prima fila da un attentissimo, e probabilmente
affamato – ma il capriolo può attendere -, David
Tibet), chissà se conquistato più dall’inusuale
tecnica e modalità di esecuzione del nostro istrione
o se, più semplicemente, dalla bellezza delle
melodie create dalla sua indiscutibile bravura (nonché
amplificate dalla notevole capacità di riproduzione
dei suoni garantitagli dalla sua amata “Baby”).
La concessione del bis, richiesto a gran voce dal pubblico
unanime, suggella e al contempo chiude quella che è
indubbiamente stata una performance di altissimo livello.
|
Torno
appena in tempo per il pranzo post romantico, capriolo, neanche
a dirlo - David Tibet sembra gradire. Ahimè conosco
i limiti del mio giovane corpo e so che ingurgitare della
cacciagione appena sveglia sarebbe letale anche per una sostenitrice
delle colazioni proteiche come la sottoscritta. Ed è
per lo stesso motivo che decido di glissare bellamente la
proiezione del tanto chiacchierato "Nekromantik", dedicando
quella fetta di pomeriggio al complesso tentativo di riconciliarmi
con la terra sostituendo dieci centrimetri di tacco con la
rassicurante suola di un paio di anfibi. Mi allontano nuovamente
dall'Init: al mio ritorno raccolgo una serie di pareri discordanti
riguardo al controverso film girato nel 1987 da Jörg
Buttgereit. Taluni l'hanno trovato morboso e disturbante -che
immagino sia esattamente quello che un film del genere pretende
di essere-, altri inutilmente morboso e disturbante. Sento
più volte pronunciare "culto", "capolavoro" e "stronzata".
Personalmente
nutro una profondissima e consapevole indifferenza nei confronti
del cinema horror, del necro-horror, dello splatter e forse
anche nei confronti del 60% di tutta la cinematografia tedesca.
Non sono riuscita a carpire neanche un timido parere sulla
sonorizzazione, l'unica cosa che in quel momento avrebbe potuto
distrarmi dall'acquisto compulsivo di dischi. Quanto all'esibizione
del granitico Steven Severin,
giusto per rimanere in tema di sonorizzazioni, m'è
parso di trovarmi innanzi ad un personaggio dal background
più che promettente (dai Banshees alle collaborazioni
con Lydia Lunch, Robert Smith... viene quasi da chiedersi
se quest'uomo sia un musicista o lo spirito santo del post
punk), impegnato in un esercizio di stile. Il suo commento
musicale alla proiezione dello storico "Il gabinetto del dottor
Caligari" mi risulta perfettamente coerente a quel che è
il mio rapporto con l'espressionismo tedesco: una fruizione
artistica suggestiva, della quale riconosco il valore, che
compiace il senso estetico ma che, a conti fatti, non riesce
a far scaturire in me nulla di neanche lontanamente assimilabile
ad un'emozione. Ma se nel caso dell'espressionismo questo
avviene per la mia incapacità di apprezzarne i tratti
più eccessivi, l'enfatizzazione ai limiti della caricatura
(per quanto contestualizzandoli e comprendendone gli intenti),
parlando di Severin il problema si ribalta diametralmente.
Tanto suggestivo quanto asettico.
Non trovo
assolutamente nulla di asettico (magari) nè tantomeno
di post-romantico nel ristorante cinese nel quale la delegazione
milanese decide di rifocillarsi e lo cito solo per giustificare
l'assenza di accenni alla triade Liles-Beauchamp e Fabrizio
Modenese Palumbo - vedi al brillante capitolo Larsen: barattato
con un piatto di verdure saltate. Non credo sia stata una
scelta oculata.
Torno
all'Init e trovo Alex Neilson sul palco: e scatta definitivamente.
Scatta
il conto alla rovescia verso la fine, il conto alla rovescia
verso i Current 93. Avendo già avuto modo di assistere
alla precedente data italiana, in quel di Torino, ho già
un'idea di cosa aspettarmi da questo giovane quanto talentuoso
batterista. Lavinia Blackwall, invece, rappresenta l'incognita.
Sono le
due metà del progetto Directing
Hand. In capo a cinque minuti l'abbigliamento di
Lavinia le vale il soprannome di "Barbie Diamanda Galas",
il che, se non risulta proprio un encomio al suo buon gusto,
nondimeno chiarifica il genere di sperimentazioni vocali che
va sovrapponendo alla brillante base ritmica di Neilson.
E lo fa
caricando il suo virtuosismo di enfasi espressionistica, a
contrasto con la sua assoluta immobilità, il vago sguardo
ceruleo. Arabeschi lamentosi - nel senso positivo del termine
s'intende- s'inerpicano in un crescendo di sospiri furiosi
e nevrotici sino ad acutissime grida. E' proprio in questi
picchi stridenti che a mio avviso le due parti si giustappongono
nella maniera più intensa, sfugge la completa lucidità
nell'ascolto, il suono si fa impulso.Folk dell'Es. Lavinia
non riesce a convincermi integralmente, nella fattispecie
trovo che la sua performance si appiattisca non poco quando
"abbassa i toni", quando si trattiene dallo strepitare e torna
nei ranghi dei vocalizzi. Alex è perfetto: beats
like a fatalistic drum, se posso permettermi di rubare
un verso di Eliot per definire questo giovane batterista dallo
sguardo spaesato e il colpo impeccabile.
Alex
Neilson accompagna poi Baby Dee
per un paio di brani. Un altro membro della presente formazione
dei Current 93 si esibisce davanti ad un pubblico sempre più
compatto e numeroso: ci avviciniamo gradualmente al bordo
del palco, laddove fino a qualche ora prima ci concedevamo
la libertà di girovagare per gli spazi dell'Init, persino
andare e tornare dal locale.
Baby Dee
è purtroppo nascosta dall'ingombrante pianoforte -
non che personalmente avverta l'urgenza di osservare quella
sorta di carcassa di dalmata che si porta addosso, eh- ma
non appena dà voce al suo strumento ci si rende conto
che la si potrebbe riconoscere ad occhi chiusi. Non so se
sia Roma a suggerirmi una vena profondamente felliniana nel
descrivere il suo personaggio. Baby Dee ha il physique du
role del freak d'un varietà d'antan, suona con ironia
da cabaret dei bassifondi e canta (e come canta!) di un'umanità
miserevole e commovente, delineando in teneri affreschi episodi
spietati di vita vissuta.
Ultimo
turn over. Prende posto sul palco una figura ben diversa dalla
pantagruelica mole di Baby Dee. Falcata elegante su tacchi
a spillo, gambe affusolate in calzamaglia nera. Volto esaperatamente
pittato. Klaus Nomi redivivo?
Ernesto
Tomasini ha un'estensione vocale di quattro ottave:
non ce ne dà saggio sin da subito, lo spettacolo vede
quale incipit la lettura della traduzione di "In league with
Satan" dei Venom. Poi, accompagnato da Liles, Palumbo, Northgate
e Beauchamp ci stupisce con le sue capacità vocali
e - e soprattutto- interpretative. E' l'arrivo del
compositore OTHON, al
cui disco hanno collaborato personaggi del calibro di Marc
Almond e David Tibet stesso, a far toccare il vertice della
performance. Il sodalizio con Tomasini da un paio d'anni a
questa parte è valso ad entrambi il favore della critica:
il medesimo riscontro positivo lo ottengono dal pubblico dell'Init,
che al termine di quest'intenso atto di teatro geminato in
musica, scoppia in un applauso senza riserve.
Dopo tutto
questo, dopo trenta fulgide ore, sarebbe davvero scorretto
considerare il PRE Final Fest alla stregua di un corollario
alla data romana dei Current 93. Per cui non interpretatemi
in tal senso, se ora scrivo che la lunghezza del turn over
a seguire è stata assolutamente esasperante. Il cortile
dell'Init è deserto, le circa cinquecento persone presenti
all'interno sono calcate sotto il palco, strette al capezzale
dell'Impero. L'estrema unzione la officia niente meno che
un senile Robert Englund, che ci appare in video, finendo
per sfoderare un'ennesima volta il celebre guanto di Freddy
Krueger: del resto non era proprio lui "il mostro dei sogni"?
C'è
qualcosa di onirico e spaventoso anche nel modo in cui un'impetuosa
cavalcata va a coprire le note di "Afternoon delight", giuliva
canzonetta della Starland Vocal Band con la quale David Tibet
usa aprire i suoi ultimi concerti; l'avevo pensato anche nell'assistere
alla data torinese dei Current 93.
E
così come sul palco del teatro Alfieri, appare la luna
ed appaiono le costellazioni. Si muovono con lentezza esasperante
sullo schermo, ci guardano col loro sorriso sghembo, così
come sono state dipinte da David Tibet per la copertina di
"Aleph at hallucinatory mountain".
Aleph,
che si concretizza sul medesimo palco, nelle persone di Andrew
Liles, Alex Neilson, James Blackshawn, Keith Wood e naturalmente,
sempre nella sua improbabile mise, Baby Dee. E poi Tibet:
scalzo, la tesa del cappello calata sullo sguardo a metà
tra l’ispirato ed il sardonico.
Parte in
sordina “Invocation of almost”, ma con l’affastellarsi delle
note l’atmosfera e le sonorità vanno in crescendo,
s’inaspriscono, si gonfiano come vele, col pianoforte a procedere
nevrotico –così come nevrotiche sono le movenze di
Baby Dee e del medesimo Tibet- in una sorta di giustapposizione
alla massa compatta e magmatica delle corde. Ed “Invocation
of almost” assume proporzioni sempre più magniloquenti,
un’esplosione corale innescata da parti disgiunte, coronata
dalla gestualità caricaturale e caustica di Tibet,
capace e di strappare sorrisi e di imporre un’ottemperante
attenzione.
Il finale è letteralmente frenetico, il pezzo approda
ad un epilogo rutilante, Tibet si muove di conseguenza, trasformando
il palco sotto i suoi piedi in una sorta di sedia elettrica.
Altri due lisergici brani estrapolati da “Aleph at hallucinatory
mountain” e l’impronta del live appare chiara: l’indirizzo
è quello dell’ultimo album.
I Current
di "Aleph..." suonano diversi rispetto al passato ma anche
rispetto a se stessi: le tracce sono reinterpretate, stravolte,
a tratti irriconoscibili senza far riferimento ai meravigliosi
testi, che Tibet canta… o latra, o sussurra, o declama, a
seconda dei casi. Cita la “gnostic fox” infondendovi
un languore che sfocia nella tenerezza, poi lo vediamo astenersi
dal respirare prima di pronunciare un’infinitamente ieratico
“I am Aleph, I am Adam”. Laddove su disco ringhiava,
peraltro.
Sulla chiusura di Urshadow la centralità della chitarra
di James Blackshaw è totale: Tibet s’affaccia dal bordo
del palco e pare chiederci, sfinito: “Surely we are living
in a dream?”
Surely.
La versione
di Black ships ate the sky è la medesima effettuata
a Torino (in effetti i riarrangiamenti sono pressochè
identici), forse ancor più in bilico tra una facciata
ludica, psichedelica e danzereccia e certi tratti tanto indelicati,
nebulosi ed alienanti. Una Black ships ate the sky sempre
in grado di evocare quel senso d'incipiente disastro, che
fa squillare l'attributo che più è congruo a
queste pur mutevoli sonorità: apocalittico.
Tibet scende
tra noi, che immediatamente gli permettiamo il passaggio,
tornato sul palco dedica il brano successivo (Niemandswasser)
ad una giovane amica russa alla quale ha deputato l'introduzione
del concerto. Arriva addirittura a commuoversi, forse finge
di farlo: perchè indagare?
E noi l'osserviamo,
forse dimentichi del fatto che si tratta dello stesso uomo
che sino a poche ore prima mangiava capriolo servendosi al
nostro medesimo buffet.
I forti
estimatori dei Current 93, del resto, sono generalmente affetti
da una comune lieve tendenza all'idolatria. Roma non è
Torino, l'Init non è un teatro. Nulla togliendo alla
data precedente (che peraltro a livello esecutivo non s'è
discostata granchè da quella del 19 Ottobre), non posso
fare a meno di sottolineare come le particolari condizioni
del PRE (dalle caratteristiche del palco, al legame tra Tibet
e gli organizzatori, passando per la stanchezza diffusa...)
enfatizzassero la percezione della dimensione rituale propria
del concerto.
Tanto che
quando il nostro ierofante ci sorprende chiudendo con Oh coal
black smith, non uno dei devoti manca di cantare all'unisono
con Tibet, che nel mentre inscena il suo consueto teatrino
zoomorfo.
Oh coal
black smith è l'ultimo sogno. O è il requiem
all'ultimo sogno?
Il sogno
è una terra laddove manifestazioni musicali così
diverse non appaiono giustapposte l'un l'altra, ma dov'è
piuttosto evidente la volontà di delineare un trait
d'union concreto e solo poi concettualizzato, quando ahinoi
è ben più frequente imbattersi nel processo
inverso. Il sogno è vedere approdare in questa terra
centinaia di persone provenienti da diversi paesi, da diverse
città, da diversi background culturali e musicali.
Il sogno sono premesse artisticamente ed intellettualmente
oneste nel decidere di organizzare un festival, la cura nel
realizzarle ed in ultimo i risultati ottenuti.
Già
profilavo queste lande in apertura del presente lungo ed incompleto
racconto, citando "The Shining shining world", il medesimo
pezzo dal quale è stato estrapolato il motto "vieni,
ti mostrerò dove vanno i sogni quando muoiono".
La terra
in questione è il Post Romantic Empire, che si scatena
nella sua totentanz ed ora, splendidamente, spira.
(Giulia Mengozzi)