PATTI
SMITH
@ Teatro Romano. Verona, 19 giugno 2015
Testo:
Gianmario Mattacheo
Foto: Adriana Bellato
Da sempre affezionata all'Italia, Patti Smith snocciola una
serie di concerti (saranno in totale sette) per festeggiare
con il suo pubblico un'altra estate di musica.
Troppo imperiosa ed ampia l'Arena, la scelta ricade sul comunque
più che suggestivo Teatro Romano. Una moda di questi ultimi
anni, quella di molti artisti di celebrare importanti album
della loro discografia: concerti a tema in cui l'intero lavoro
viene eseguito dall'A alla Z, condividendo con gli appassionati
la ricorrenza del caso.
È "Horses" l'album che la grande sacerdotessa del rock celebrerà
live stasera (e per l'intero tour); un anniversario non certo
da poco, se consideriamo che l'esordio discografico di Patti
Smith festeggia le quaranta primavere. Non solo "Horses" in
effetti, ma più realmente i concerti di questa estate vogliono
celebrare l'artista Patti Smith ed i suoi primi quarant'anni
di carriera, da quando, ragazzina a New York, sentì forte la
responsabilità di prendere in prima persona la (ri)nascita della
musica; musica che non era ancora punk e non era ancora wave,
ma che si sarebbe dimostrata embrionale per entrambi i generi,
condizionando fortemente gli anni a venire.
A
testimoniare il carattere commemorativo della serata, all'artista
viene conferito, da parte dell'amministrazione comunale, un
premio alla carriera: il pubblico tributa un lungo applauso
all'americana e, per converso, non fa mancare il proprio disappunto
alla giunta Tosi (le recenti polemiche politiche pare che abbiano
lasciato il segno!!!)
Per rendere ancora più straordinaria la celebrazione di "Horses",
Patti Smith viene accompagnata sul palco dai musicisti che realizzarono
il disco del 1975. Parliamo di musicisti da sempre legati alla
poetessa: il fidato Lenny Kaye, insieme ai tamburi di Jay Dee
Daugherty (membri originari di quel Patti Smith Group del 1975)
e poi il figlio Jackson Smith alla seconda chitarra e Tony Shanahan
alle tastiere e basso.
Quando sono da pochi minuti passate le 21.00 e, soprattutto,
quando da pochissimo ha appena smesso di piovere sulla città
di Giulietta, i musicisti salutano il Teatro Romano.
Apre le danze "Gloria" ed il pubblico è, da subito, accogliente
al punto giusto. Così come impresso sul disco, la "Gloria" della
signora Smith è ancora più coinvolgente dell'originale firmata
Van Morrison, quando con i primi Them la incise nel 1965. È
un rock che porta immediatamente alla partecipazione collettiva;
è un modo di rompere il ghiaccio alla grande e di fare cantare
il pubblico con un insolito (ma ormai classico) gospel metropolitano.
"Redondo beach" è, invece, una delle canzoni più fragili dell'intero
repertorio. È un reggae giocoso o troppo easy, ma con il merito
di far sorridere gli spettatori (vediamo che anche dal palco
non mancano i sorrisi), e con l'oceanica "Birdland" si entra
in pieno nelle grandi composizioni della Smith: inizio lento
e crescendo coinvolgente, mentre la voce (che parte come un
sussurro) rivelò, da subito, il ruolo di poetessa e sacerdotessa,
facendo apparire la canzone più uno sfogo letterario piuttosto
che un virtuosismo canoro. Quella che, molto probabilmente,
è la migliore del disco, rimane anche l'esecuzione più artisticamente
alta dell'intera serata.
Durante il concerto la Smith si scusa con il pubblico perché
ammette di non sentirsi al meglio e di avere un po' di raffreddore.
Disagio probabilmente solo suo, considerato che la voce esce
ancora brillantemente ruvida come in passato, indenne dal passaggio
del tempo. "Free money" mantiene il concerto sul versante dell'emotività;
"Kimberly" scende di tono da un punto
di vista prettamente qualitativo, ma ci fa comunque apprezzare
la rocker Patti Smith, capace di rendere piacevoli e credibili
canzoni francamente deboli e senza troppo piglio su disco, pronte,
invero, a diventare hit concertistici per il sol fatto di essere
interpretate da lei. Due parole le meritano certamente i due
"vecchi" del complesso.
Jay Dee Daugherty è un portento ai tamburi; le canzoni di "Horses"
non sono impossibili da realizzare, ma la maestria con cui delizia
ogni passaggio sono momenti di assoluto godimento. Lenny Kaye,
invece, è l'alter ego maschile di Patti Smith; difficile o sconcertante
sarebbe pensare ad un concerto dell'americana senza l'ombra
amica del padre dei "Nuggets". Un grande. Sul finale, c'è spazio
per un bis di "Gloria" e per una "Elegie" in cui Patti Smith
intende ricordare alcuni dei suoi amici scomparsi. Si va dai
(molti ormai) Ramones che ci hanno abbandonato, passando a Jim
Morrison, Joe Strummer ed al marito Fred "Sonic" Smith, chiudendo
con il grande Lou Reed. Per i bis gli artisti scelgono alcuni
brani ineliminabili nei loro live set. È scontata la riproposizione
di "Because the night", ma è toccante l'occhiata che si scambiano
madre e figlio, quando la rocker dedica il brano al "Papà di
Jackson" (il figlio intanto imbraccia la chitarra elettrica
che fu già arma sonica di quel Fred Smith, leader degli MC5)
e con "Dancing barefoot" arriva un altro classicone del gruppo.
Patti Smith non è un fenomeno di bellezza e non è certo una
ballerina; tuttavia, rimaniamo incantati nell'osservare quel
movimento che, seppur parzialmente sgraziato, riesce ad essere
femminile e sinuoso al tempo stesso ed allora anche la grande
cantante si riappropria delle fattezze che vennero immortalate
nel disco "Easter", quando quei fotogrammi dipingevano una bellezza
assai difficile da raccontare.
Patti Smith lascia il palco al suo gruppo che, in risposta,
esegue alcuni classici del rock (Shanahan e Kaye alla voce)
e segnaliamo una brillante "I'm waiting for the man" dei Velvet
Underground. In questo frangente la cantante non torna nel backstage,
ma si offre completamente al suo pubblico, aggirandosi per il
teatro, stringendo mani e facendosi apprezzare da vicino: un
modo per cementare il rapporto con i fan.
Il segnale di grande positività non poteva non essere celebrato
con la canzone che, più di tutte, sintetizza il pensiero di
Patti Smith, e con "People have the power" ci si esalta con
un messaggio per le nuove generazioni: "Siete voi il futuro!
Voi avete in mano il destino del mondo. Siete più forti dei
Governi!". L'ultimo rientro è per "My generation", la cover
degli Who che il Patti Smith Group suonò già nel 1975 e che
compare, quale bonus track, nella riedizione dell'album festeggiato
questa sera.
I musicisti coinvolgono un pubblico sempre più rapito dalla
genuinità della performance; è una macchina infallibile Daugherty,
così bravo da non far rimpiangere Keith Moon, mentre Patti Smith
sul finale della canzone si fa portare una chitarra, ma anziché
suonarla stacca (quasi rabbiosamente) le corde, cercando tuttavia
di riprodurre un qualcosa che non necessariamente è musica o
suoni, ma più verosimilmente è solo energia. E quando sul palco
sale Patti Smith, di energia ne arriva sempre tanta.