L’Arena è sempre stato un mio pallino. Nei
miei giri di fantasia ho sognato di assistere qui
a grandi concerti. È vero, i Cure non ci sono
neppure passati, ma quando ho visto che Nick Cave
con i suoi cattivi semi avrebbe suonato nella più
suggestiva location di Verona, il comprare il
biglietto rappresentò già un bel pezzo della
concretizzazione di quel sogno.
Dopo una
giornata da bollino rosso per il caldo, proprio
nell’imminenza del concerto, accade il classicone
degli eventi live, ovvero un bell’acquazzone che
costringe a rimandare, di un’ora abbondante, lo
spettacolo. Per fortuna la pioggia battente ha
infierito, ma non ha ucciso, stemperandosi verso
le 22.00, proprio in prossimità del rimandato
segnale di start. Scalpita Re Inchiostro quando
sembra non aspettare altro che dire al suo
pubblico di “prepararsi all’amore”; “Get ready for
love” (anche se prende una pericolosa “tibiata”
mentre sta per andare in zona Sclavunos e coriste)
e subito dopo “There she goes, my beatiful world”,
canzoni con cui si apre il concerto, ma è con il
terzo pezzo che ci si infiamma, facendo evaporare
tutta l’acqua caduta nella serata. “Ah, voglio
parlarti di una ragazza” è l’incipit di “From her
to eternity”, quel brano la cui resa live è capace
di superarsi in ogni occasione, ma anche quello
che, da solo, basterebbe a giustificare la
trasferta. C’è però qualcosa di “anomalo” nel
concerto, soprattutto rispetto agli ultimi Cave
visti dal vivo. Troppa, troppa distanza tra il
palco e le prime file. Se a questo aggiungiamo
come tutti fossero obbligatoriamente costretti
sulle sedie, non è difficile immaginare la
difficoltà aggiuntiva per l’australiano. Il
concerto prosegue con un Cave che ringrazia più
volte il suo pubblico. Mentre si susseguono i
brani: “Jubilee street” è senza dubbio una delle
migliori, “Carnage” una delle nuove e più
apprezzate in scaletta e “Tupelo” il classicone
che non può mancare. Fatta salva la premessa di
qualche riga sopra, Cave non vuole comunque
rinunciare ad contatto con i suoi fedelissimi;
ecco, allora, spingersi tra le prime file e fare
quella roba che solo lui compie in quel modo.
Tocca mani, si fa sommergere dai più invasati,
grida in faccia alle persone, per poi commuoversi,
mentre alza le braccia in cielo. Classici e
brani meno scontati si danno il cambio. La
cavalcata per eccellenza di “Mercy seat” e “The
ship song” sono due momenti imprescindibili, “Red
right hand” uno dei tanti capolavori di “Let love
in”, mentre “White elephant” è un brano
accreditato ai soli Cave e Ellis. Un rientro
con l’ovazione per “Into my arms”, in cui non
mancano baci tra innamorati e luci dei telefonini
e “Vortex”, afferente all’orbita delle B-side del
gruppo.
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