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LOU REED
@ Vittoriale degli italiani – Gardone Riviera (Bs), 22 luglio 2011

di Gianmario Mattacheo e Nicola De Brita

 

La location è già una di quelle che ci assicurano un eterno ricordo della serata. Se a questo aggiungiamo il nome di Lou Reed, non fatichiamo ad immaginare uno spettacolo che, almeno sulla carta, è già straordinario. Veramente inutile fare un cappello introduttivo per l’artista americano. Lou Reed ha scritto alcune delle pagine più memorabili della musica del ventesimo secolo; è un maestro (probabilmente un po’ scorbutico), un esempio per milioni di musicisti e, soprattutto, un gran bel pezzo della storia del rock.

Il Vittoriale degli italiani, la cittadella fortemente voluta da Gabriele D’annunzio, costituisce meta turistica tutto l’anno, indipendentemente da eventi musicali o teatrali. L’insieme delle Vie, dei giardini e dei cimeli atti a ricordare e celebrare la vita del poeta e le imprese degli italiani nella Grande Guerra, fanno di questo luogo un autentico orgoglio nazionale. All’interno di questo contesto, il teatro (concepito secondo la tradizione classica) è la cosiddetta ciliegina sulla torta; stupendo, con un’incantevole veduta sul lago di Garda è un luogo in cui non è difficile pensare di emozionarsi, specie quando gli artisti in cartellone sono nomi così altisonanti.

Alle 21.40, con un certo ritardo sulla tabella di marcia, entrano finalmente gli artisti on stage. È un gruppo piuttosto giovane quello che accompagna il rocker americano. Ci dispiace non poter vedere Fernando Saunders, uno dei più storici collaboratori di Reed, o la chitarra di Steve Hunter, ma i bravi musicisti (capitanati dal “vecchio” Tony Smith alla batteria) hanno fama di essere all’altezza dell’ex Velvet Underground. L’inizio è uno di quelli col botto; un messaggio per l’intera serata. “Who loves the sun” (tratta da “Loaded”) ci dice, da subito, come le intenzioni di Reed siano quelle di attingere tantissimo dall’indimenticato repertorio Velvet. Sembra, tuttavia, che la voce di Lou Reed non sia ancora calda al punto giusto. Un po’ roca e piatta necessita di tutto il primo pezzo per farsi riconoscere appieno, secondo le frequenze celebri delle sue corde vocali. Il piccolo anfiteatro (sold out, ovviamente) è subito generoso nel tributare al grande personaggio il dovuto omaggio. Si prosegue con due brani dall’esecuzione lunghissima. “Senselessly cruel” e “All through the night” presentano una band di giovani virtuosi che realizza una sorta di lunga jam session, vicina per sonorità, più al jazz che al rock (quasi a stordimento gli assoli di chitarra, violino e sax). La porzione centrale dello spettacolo è quella che regala le emozioni più forti, quando la band vira la performance su un versante più rock e sanguigno. “Ecstasy” (dal bellissimo omonimo album del 2000) “Street hassle” (oceanica) e, soprattutto, “Venus in furs” (il capolavoro più alto e malato del decadentismo Velvet) inchiodano lo spettatore. “Venus in furs”, in particolare, è in assoluto uno dei vertici di stasera. La perla sofferta, tratta da quell’album irripetibile “The Velvet Underground & Nico” (come non pensare a quella copertina raffigurante la banana disegnata da Andy Warhol) è interpretata in maniera superba dalla band, mentre un Lou Reed sempre più ispirato utilizza al meglio la sua inconfondibile voce. Si ricevono altri due regali straordinari quando Reed ripesca “Sunday morning” e “Femme fatale”, continuando gli omaggi all’album che cambiò per sempre la musica contemporanea. Le versioni di questi ultimi due pezzi, invero, cambiano nuovamente la rotta del concerto; la band funge solo da contorno, mentre Reed e la sua chitarra disegnano trame acustiche perfette, stravolgendo in parte la melodia originale. Dopo “Waves of fear” e “I wanno bolgie with you”, arriva un altro vertice del concerto, quando Reed inizia ad intonare “Sweet jane”, con la quale si chiude il main set. Al rientro il pubblico è travolto da una superba “The bells” (dall’omonimo album del 1979). Reed canta ancora ispirato e con una grinta superiore rispetto a qualsiasi brano proposto oggi. Il pubblico è in totale fermento (ed è pure aizzato dallo stesso cantante).
A questo punto serve il saluto finale per riportare pace ed armonia. Arriva il momento di “Pale blue eyes” (da “Velvet Underground” del 1969) che, come una sorta di ninnananna, mette la parola fine allo spettacolo. Versione acustica e minimale, con arrangiamento che ricorda le versioni odierne di “Femme fatele” e “Sunday morning”, per uno dei brani più dolci mai scritti dall’ex leader dei Velvet.
Un concerto davvero speciale, reso ancor più tipico per la location e per la scelta dei brani proposti. Inevitabile la standing ovation che accompagna l’uscita del newyorkese.

Un grande artista che merita ancora tutta quella fama e quella gloria, conquistate tanti anni fa

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