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LOU
REED di Gianmario Mattacheo e Nicola De Brita
La
location è già una di quelle che ci assicurano un eterno ricordo della
serata. Se a questo aggiungiamo il nome di Lou Reed, non fatichiamo
ad immaginare uno spettacolo che, almeno sulla carta, è già straordinario.
Veramente inutile fare un cappello introduttivo per l’artista americano.
Lou Reed ha scritto alcune delle pagine più memorabili della musica
del ventesimo secolo; è un maestro (probabilmente un po’ scorbutico),
un esempio per milioni di musicisti e, soprattutto, un gran bel pezzo
della storia del rock.
Alle 21.40, con un certo ritardo sulla tabella di marcia, entrano
finalmente gli artisti on stage. È un gruppo piuttosto giovane quello
che accompagna il rocker americano. Ci dispiace non poter vedere Fernando
Saunders, uno dei più storici collaboratori di Reed, o la chitarra
di Steve Hunter, ma i bravi musicisti (capitanati dal “vecchio” Tony
Smith alla batteria) hanno fama di essere all’altezza dell’ex Velvet
Underground. L’inizio è uno di quelli col botto; un messaggio per
l’intera serata. “Who loves the sun” (tratta da “Loaded”) ci dice,
da subito, come le intenzioni di Reed siano quelle di attingere tantissimo
dall’indimenticato repertorio Velvet. Sembra, tuttavia, che la voce
di Lou Reed non sia ancora calda al punto giusto. Un po’ roca e piatta
necessita di tutto il primo pezzo per farsi riconoscere appieno, secondo
le frequenze celebri delle sue corde vocali. Il piccolo anfiteatro
(sold out, ovviamente) è subito generoso nel tributare al grande personaggio
il dovuto omaggio. Si prosegue con due brani dall’esecuzione lunghissima.
“Senselessly cruel” e “All through the night” presentano una band
di giovani virtuosi che realizza una sorta di lunga jam session, vicina
per sonorità, più al jazz che al rock (quasi a stordimento gli assoli
di chitarra, violino e sax). La porzione centrale dello spettacolo
è quella che regala le emozioni più forti, quando la band vira la
performance su un versante più rock e sanguigno. “Ecstasy” (dal bellissimo
omonimo album del 2000) “Street hassle” (oceanica) e, soprattutto,
“Venus in furs” (il capolavoro più alto e malato del decadentismo
Velvet) inchiodano lo spettatore. “Venus in furs”, in particolare,
è in assoluto uno dei vertici di stasera. La perla sofferta, tratta
da quell’album irripetibile “The Velvet Underground & Nico” (come
non pensare a quella copertina raffigurante la banana disegnata da
Andy Warhol) è interpretata in maniera superba dalla band, mentre
un Lou Reed sempre più ispirato utilizza al meglio la sua inconfondibile
voce. Si ricevono altri due regali straordinari quando Reed ripesca
“Sunday morning” e “Femme fatale”, continuando gli omaggi all’album
che cambiò per sempre la musica contemporanea. Le versioni di questi
ultimi due pezzi, invero, cambiano nuovamente la rotta del concerto;
la band funge solo da contorno, mentre Reed e la sua chitarra disegnano
trame acustiche perfette, stravolgendo in parte la melodia originale.
Dopo “Waves of fear” e “I wanno bolgie with you”, arriva un altro
vertice del concerto, quando Reed inizia ad intonare “Sweet jane”,
con la quale si chiude il main set. Al rientro il pubblico è travolto
da una superba “The bells” (dall’omonimo album del 1979). Reed canta
ancora ispirato e con una grinta superiore rispetto a qualsiasi brano
proposto oggi. Il pubblico è in totale fermento (ed è pure aizzato
dallo stesso cantante). Un grande artista che merita ancora tutta quella fama e quella gloria, conquistate tanti anni fa .
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