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DARK DAY 7
Transilvania Live, Reggio Emilia, 11 Aprile 2004

E’ pomeriggio inoltrato quando arriviamo al Transilvania, un tipico pomeriggio di primavera emiliana, con un bel sole alto nel cielo a dar chiarezza ai colori e alle forme ed un lieve sentore d’inverno ancora sospeso nell’aria tersa. Una bella giornata, insomma, che ci fa apparire cosa curiosa la folla di pallidi vampiri e procaci succubi che preferisce intrattenersi in questa luminosa cornice, gozzovigliando e tracannando birra sui tavoli dinanzi al locale, piuttosto che rifugiarsi al suo interno, ove nella penombra insistita di umide cripte la loro essenza oscura dovrebbe trovarsi maggiormente a proprio agio. Sopra questo improvvisato banchetto pasquale vediamo troneggiare un cartello, raffazzonato ed incollato alla bell’e meglio, che insiste a ricordare come l’apertura delle porte sia prevista per le 17.30. Decidiamo quindi di entrare nel locale, alla ricerca di visi noti con cui ingannare la mezz’ora che ancora ci separa dall’inizio delle danze e mentre ci aggiriamo nelle sue sale quasi vuote, non possiamo fare a meno di notare come niente – o quasi – sia realmente pronto per l’imminente serata. Scopriamo infatti che alcuni gruppi, attesi dall’organizzazione nel primo pomeriggio per il soundcheck, si sono presentati, per ragioni che trascendono l’umana comprensione, con oltre quattro ore di ritardo sulla tabella di marcia convenuta, ed invece di esser spediti di buon’ora nei loro camerini ed obbligati quindi ad un line-check un attimo prima di suonare davvero, siano stati acccolti come se niente fosse e lasciati liberi di provare per tutto il tempo che ritenevano necessario. E se il povero Syrian almeno si comporta da onesto lavoratore, finendo alle sette di sera quasi la sua prova preliminare ma almeno non causando ulteriori problemi, davvero non riusciamo a capire il comportamento dei Bloody Mary, che incuranti dell’increscioso ritardo, riescono a perdere anche ulteriori venti minuti litigando con il fonico nel disperato tentativo di capire a quale canale del mixer corrisponda quale microfono. Nel bene o nel male comunque anche questo rito si compie, e la serata sembra veramente in grado di iniziare. Speriamo senza ulteriori problemi, anche se avvertiamo il sentore che la nostra sia solo una vana speranza.

Sono da poco passate le sette di sera quando finalmente le porte vengono aperte ed il popolo nero è così libero di sciamare all’interno del locale e di riempirne le sale, con i suoi pizzi e svolazzi e decorazioni in latex, alla ricerca di dischi, vestiti o del semplice refrigerio che qualcosa di fresco da bere riesce a dare ad una gola riarsa. Per tre quarti d’ora circa il pubblico continua a fluire all’interno del Transilvania, scivolando per le varie sale che attorniano quella principale come bruma che accarezza la terra sul far della sera, per poi ritrovarsi, come una folla di fedeli che attende l’inizio di un rito, sotto al palco su cui a breve si esibiranno i Rosa Crvx.
Attendendo la comparsa di Olivier e soci, ci soffermiamo a rimirare l’inusuale strumentazione che imponente domina lo stage, su cui spicca in particolare per dimensioni e bellezza un maestoso telaio in legno brunito in cui sono incastonate delle campane in bronzo di varie dimensioni, ingegnosamente collegate ad una rudimentale tastiera che le controlla e consente di suonarle secondo i principi tradizionali delle campane da chiesa. Sin da questa piccola e curiosa invenzione si intuisce quale sia la forma reale del mondo dei Rosa Crvx, un mondo non solo fatto di musica fine a se stessa, ma anche di invenzioni, di indagine filosofica ed esoterica e di ricerca visuale, in cui ogni cosa viene studiata nei minimi dettagli cercando di offrire al pubblico un’esperienza che sconfina in un territorio molto più vasto di quello toccato dalla solita, normale musica. A fianco del telaio vi è un pianoforte antico che della sua struttura originaria conserva solamente i tasti e i martelletti ed in luogo delle corde custodisce una serie di registri meccanici ed elettronici che lo rendono uno strumento estremamente versatile, in grado di riprodurre sia le sonorità proprie di un normale piano che quelle di un organo o di un clavicembalo. E ancora, ad affollare il retro del palco, scorgiamo una singolare batteria meccanica in cui tutti gli elementi vengono percossi secondo ritmi sempre diversi da una serie di braccia d’acciaio, mosse in accordo con gli impulsi di un particolare processo elettromagnetico ideato dallo stesso Olivier. A vederla in azione poi, ci sembrerà che i tamburi, i cimbali, la grancassa ed i timpani siano suonati da invisibili musicisti fantasma, richiamati dal mondo delle ombre ad eseguire trame di rara potenza ed ossessività.
In questo scenario fanno quindi la loro comparsa i tre Rosa Croce, affidando l’inizio del rito alle note di Abbrasax e Morituri, due pezzi che sin da subito ci calano completamente nel loro universo, in cui tradizione e sperimentazione si fondono a mostrare che antico e moderno nell’uomo come nell’arte possono perfettamente coesistere. Così infatti i vibranti tocchi del contrabbasso di Natalie ben si sposano ai toni più moderni della chitarra di Olivier e le macchine e le campane suonate da Claude creano attorno a loro una perfetta cornice sonora. Due sbandieratrici dall’alto del ballatoio che sovrasta il palco scandiscono con movenze ritmate e lente la solennità dell’apertura, conferendo all’esibizione un sapore medievale che non fa che accentuare il contenuto esoterico dei brani.

Per oltre settanta minuti veniamo condotti da melodie non scevre di echi industriali in un mondo lontano, in cui alle suggestioni create dai testi in latino ed ebraico si uniscono quelle derivate dai semplici fonemi privi di significato e dai melismi articolati dalla voce di Olivier e Claude, come se i suoni che sentiamo giungessero direttamente alla nostra anima e ci parlassero in un linguaggio a noi noto ma da molto, troppo tempo dimenticato, un linguaggio di cui il nostro stesso spirito sembra esser fatto, legato alla sua vera natura che deriva dallo spirito della terra madre e dall’anima unica del mondo, utero da cui siamo nati e luogo in cui alla nostra morte torneremo. Una musica che è come un viaggio all’interno di noi stessi e all’indietro nel tempo e quando verso la fine dello spettacolo fanno la loro comparsa tra il pubblico due danzatrici nude e coperte di fango che si contorcono al suolo nutrendosi della terra stessa e rigettandola, non sentiamo che quel che vediamo appartiene ad un tempo realmente lontano da quello attuale, ma anzi ci sembra che sia una danza i cui ritmi e i cui segreti significati siano da sempre dentro di noi, quasi proiezione visiva della memoria dei nostri ancestrali natali. Un concerto lungo, lunghissimo, estenuante: quando le ultime note della musica scompaiono ci sentiamo pieni di emozioni e al tempo stesso svuotati, esausti. Il ritorno al mondo moderno, ai suoi pallidi vampiri e ai suoi deliri in latex è qualcosa che ci appare strano, come un sogno di cui non si capisca il significato. Poi, lentamente, forme e colori tornano al loro posto, e ci rendiamo conto di essere alquanto affamati.

Recuperiamo qualcosa da mangiare al bar e torniamo – dopo solo un’ora dalla fine dell’esibizione dei Rosa Croce – nella sala principale, giusto in tempo per gustarci la sfilata di moda gotica che curiosamente viene fatta a metà della serata, generando ulteriori ritardi sulla tabella di marcia. Lasciando perdere qualsiasi giudizio estetico sui capi ammirati (raramente abbiam visto cose di tale scarso buon gusto), non possiamo però fare a meno di chiederci se non sarebbe stato meglio fare questo defilée durante il cambio di palco, onde annullare i tempi morti e velocizzare lo svolgimento del festival. Ma ovviamente le soluzioni logiche non sempre rispecchiano le scelte di comodo fatte da altri, e così dobbiamo attendere le 22:30 per veder continuare la serie dei concerti previsti. La serata si preannuncia come un qualcosa di intermibabile, forse di eterno e l’agonia non fa che protrarsi assistendo allo scialbo ed assolutamente anonimo spettacolo messo in scena da Syrian. Trentacinque minuti di esibizione che ci sembrano infiniti, vista la monotonia dei brani proposti, bassa ebm da avanspettacolo – anche se definirla “da supermercato” sarebbe più calzante – sui cui ritmi strasentiti e per nulla incisivi un dinoccolato individuo rasato saltella e si dimena con i suoi inseparabili occhiali da sole, utilissimi vista la luce accecante del luogo, giocando con un cono di luce laser verde che gli viene proiettata alle spalle. A suggello di questa eccitante esibizione viene un’ardita cover degli Iron Maiden, una Wasted Years davvero troppo kitsch e mal cantata per risultare almeno in minima parte credibile. Certo è che questo titolo perfettamente rispecchia tutto il tempo che abbiam passato qua dentro, eccezion fatta per i Rosa Crvx: sono le 23 passate e non è successo ancora nulla di rilevante, i nomi grossi residui (Inertia e Kirlian Camera) sembrano dispersi nella notte atemporale. Ma ci sarà una macchinetta per il caffè da qualche parte?

Non abbiamo infatti grosse illusioni sul fatto che i Bloody Mary siano in grado di movimentare un minimo la serata. Già l’esordio, “ciao ragazzi reggioemiliani” lascia tutti alquanto perplessi, segno premonitore di quello che sarà più uno show personale del pittoresco frontman che un concerto vero e proprio. Vestito con una versione cyberlatex di quello che fu il mitico giubbotto di Fonzie, il cantante della compagine milanese salta, urla, incita i venti amici del gruppo che son venuti a sostenerli (ma non erano tutti reggioemiliani?) e poco si cura della qualità del prodotto musicale offerto. Per quasi cinquanta minuti assistiamo alla loro esibizione in cui giri di basso e chitarra scontati accompagnano una voce che cerca di imitare i ben migliori Type O Negative e 69 Eyes. Uno spettacolo brutto, caotico, pleonastico ed autoreferenziale, che non fa che consolidare in noi l’idea che se questi baldi giovanotti usassero un decimo delle energie che sprecano nel tentativo di atteggiarsi a primi attori per migliorare le loro abilità tecniche, nel giro qualche anno forse riuscirebbero a suonare qualcosa di – non diciamo originale perché ci sembra un’autentica impresa – quantomeno decente.


Quando vediamo salire sul palco i First Black Pope ci accorgiamo però che il peggio doveva ancora venire. Per quasi un’ora siamo chiamati ad assistere ad una esibizione che racchiude in sé i lati peggiori della scena ebm ed industriale, sia a livello di immagine che ad un livello più prettamente musicale. Il filmato che accompagna lo spettacolo, un collage di arti lacerati, feti deformi e immagini di guerra, ci stomaca, e spostando lo sguardo dallo schermo al palco passiamo dalla violenza gratutita alla morte del buon gusto. Il batterista che prova a suonare con un collant in testa ed il cantante che si esibisce prima con uno spolverino che fa molto cattivissimo gerarca nazista e poi a torso nudo producono un quadro davvero grottesco, che sorprendentemente ben si sposa con l’accozzaglia di suoni prodotta. Forse i First Black Pope vorrebbero imitare Hocico e altri loro illustri colleghi, peccato però che questi ultimi siano dei musicisti e quindi si possano permettere certe scelte, essendo in grado di gestirle con maturità e competenza, cosa che alla compagine italiana assolutamente manca. Questa deludente serie di esibizioni si protrae purtroppo fino all’una di notte e molta gente, troppo stanca a causa della lunghissima serata, incomincia a lasciare il locale.

Qualche centinaio di persone resiste stoicamente, e la loro costanza viene ripagata dall’onesto show degli Inertia, che inscenano quarantacinque minuti di piacevole ebm, graffiante e tunzettara al punto giusto. I ragazzi sul palco appaiono comunque un po’ stanchi e forse non sufficientemente carichi, vista l’ora e il concerto che hanno sostenuto la sera prima a Prato, ed il pubblico stenta a lasciarsi coinvolgere, se non nel finale, quando una convincente versione di No defect sembra riuscire a far muovere alcuni degli astanti. Una performance che ci lascia comunque una buona impressione.

Per l’ennesima volta il palco viene smontato e rimontato e appena alle 02.30 di mattina si presentano al pubblico superstite gli headliner della serata, i Kirlian Camera.
L’apertura, un Gloria di Verdi con inserti elettronici su cui vengono proiettate immagini della Sacra Sindone sembra più un inno che beatifica e osanna chi ha avuto la pazienza di arrivare fin qui che il vero e proprio inizio del concerto. I cinque Kirlian (era una vita che non vedevamo così tanta gente sul palco a fianco di Angelo) si prodigano quindi per oltre sessanta minuti ad intessere trame elettroniche che formano una perfetta colonna sonora per le immagini proiettate sullo schermo alle spalle del gruppo, immagini di alieni e di incontri ravvicinati di vario tipo e fatti storici o di cronaca ad essi correlati di cui in genere non si parla e che creano nell’ascoltatore l’inquietante certezza che non siamo così soli come ci è stato fatto credere. I primi brani sono purtroppo rovinati dal solito fonico incompetente, problema annoso che sembra assillare i Kirlian solo nelle loro esibizioni italiane. In questo caso la scarsa professionalità del fonico in questione è assoluta, non crediamo possibile che non sapesse nemmeno quali dovessero essere i livelli delle voci e che sia stato costretto a tarare ogni cosa in corsa, in un tripudio di larsen, fischi, interferenze e distorsioni. Fortunatamente, dopo le prime tre canzoni, tutto sembra procedere per il meglio, anche in virtù delle miracolose alchimie che Angelo e soci riescono a far sul palco per sopperire l’inadeguatezza altrui. Possiamo così goderci appieno News, The Desert Inside, splendida prefazione a quello che sarà davvero il gioiello della serata: un’inedita, tesissima versione di Ocean, in cui la voce di Elena si libra potente come non mai, riuscendo a coinvolgere e trascinare un pubblico visibilmente prostrato dalla tardissima ora fatta. Ad essa segue una breve parentesi acustica, con due vecchi pezzi da Pictures from Eternity, Your Face in the Sun e The end of day, brani che ugualmente da molto tempo non venivano riproposti, e Fields of Sunset, in cui possiamo ammirare l’estro con la chitarra di Simone Mulé, uno dei nuovi acquisti dei Kirlian assieme a Mia Karin. Poi si torna di nuovo a sonorità più agguerrite ed aggressive, con Erinnerung, eseguita in una versione ancor più cattiva dell’originale, e con Eclipse, sulle cui note lo spettacolo si chiude. Il pubblico chiama ancora una volta sul palco il gruppo per un encore: dopo Heldenplatzt però è la volta della notte goth, che continuerà fino all’alba.

Non è ancora la notte di Beltane, infine, quando usciamo dal Transilvania, con la certezza di aver visto un qualcosa di potenzialmente molto buono che però è stato trattato con una professionalità quasi dilettantesca. Non crediamo sia stato giusto aver penalizzato ottimi gruppi obbligandoli a suonare ad orari impossibili e per meno tempo del previsto (per dirne una, i Kirlian Camera sono stati costretti ad accorciare la scaletta) per lasciar spazio invece a performance scadenti di progetti misconosciuti. Meglio sarebbe stato costruire una sola serata attorno a due o tre nomi di prestigio. Qualità, non quantità. E soprattutto, nessun favoritismo o occhio di riguardo per i protetti di famiglia.

Testo del reportage:
I Lupi di Winhall

foto dei Rosa Crux: by Nikita

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