DEATH
IN JUNE + SPIRITUAL FRONT
Orion, Roma, 14 dicembre 2012
Testo
e foto di Gianmario Mattacheo
L’importanza
di un gruppo come i Death in June è ampiamente conosciuta e
non merita un ulteriore “ripassone” della ormai ultratrentennale carriera.
Tuttavia,
il tornare a vedere on stage la band di Douglas Pearce rappresenta
una sorpresa innanzitutto per chi sta scrivendo, convinto che il desiderio
di vedere live la morte a giugno si fosse esaurita esattamente un
anno fa.
Una
serie di fattori mi portano, invece, a Roma per la seconda (ieri il
gruppo ha suonato a Milano e domenica toccherà a Salerno) tappa
italiana della più celebre band di folk apocalittico.
Uno
di questi fattori risiede anche nella band di supporto ai DIJ. Il
nome degli Spiritual Front, infatti, compare solo per il concerto
di stasera del sopraccitato tour: un motivo valido per preferire lo
show capitolino agli altri due.
L’Orion
club di Ciampino, adiacente all’aeroporto internazionale, è
un celebre locale alla periferia di Roma. Per la prima volta ci apprestiamo
a vedere un’arena che vanta una buonissima fama in termini di grandi
artisti presentati al pubblico.
Scorrendo
i nomi del recentissimo passato, possiamo vedere che qui vi hanno
suonato gli Archive, Mark Lanegan Band, “Teatro degli orrori”, “Katatonia,
e questo solo per quanto riguarda l’ultimo mese di programmazione.
Sono
le 23.00, quando sul palco romano fanno l’ingresso gli Spiritual
Front, ovvero la band nata per volontà del leader Simone
“Hellvis” Salvatori, da oltre dieci anni un esempio di prodigio dark
folk ed un orgoglio italiano per ciò che concerne la musica
meno commerciale.
I
quattro album che compongono la loro discografia (l’ultimo in studio
è “Rotten Roma Casino” del 2010) dicono in realtà poco
circa la grande qualità e la forsennata attività live
del gruppo.
Attività
live che, in effetti, tende a svolgersi soprattutto fuori dai confini
nazionali, dove la band di Salvatori è apprezzata al pieno
delle proprie potenzialità: la presenza di due eccellenti gruppi
(DIJ e Spiritual Front hanno suonato sullo stesso palco anche in Germania
ad inizio dicembre) inquadra questo appuntamento come un evento dal
valore musicale veramente alto.
Impeccabili
in eleganti vestiti neri, gli Spiritual Front salutano il pubblico
romano con “The shining circle”, brano tratto da “Armageddon gigolo”,
il vero capolavoro sulla lunga distanza firmato SF.
Il
quartetto è subito affiatato e suona con energia un sound a
cavallo tra dark folk, musica popolare e tango, in cui Simone Salvatori
è abile a tenere il palco con sicurezza ed una certa dose di
teatralità.
Tra
gli altri, ci piace osservare Federico Amorosi (al basso) che, nonostante
suoni da seduto, riesce a realizzare un set estremamente fisico ed
energico, permettendosi in più frangenti di rubare la scena
allo stesso Salvatori.
Sono
i Bad Seeds di Nick Cave il gruppo che, più di altri, si può
accostare a quanto prodotto da Salvatori e soci. In realtà,
non è solo il discorso musicale che fa tornare in mente l’australiano
ed i “cattivi semi”; guardando live gli Spiritual Front, possiamo
vedere che il look (impassibile, composto ed elegante) è tanto
ricercato quanto efficace, proprio sullo stile dei Bad Seeds.
Ritornando
alla musica, possiamo dire che i pezzi che più hanno coinvolto
il pubblico sono i titoli tratti dal sopraccitato “Armageddon gigolo”:
“Jesus died in Las Vegas” e “Slave” sono le canzoni che ottengono
i più alti riscontri, ma si fanno molto apprezzare anche “Soulgambler”
ed “Hey boy”. L’ultimo pezzo, riservato a “Bastard angel”, lascia
il posto ai meritati applausi finali.
Il
tempo di allestire il palco per il main event ed è già
pronto l’ingresso in scena dei Death in June.
Il
duo, composto dal fido John Murphy (percussioni e rumori vari) e da
Douglas Pearce (chitarra acustica e tamburi), si presenta con la consueta
maschera, divenuta la vera e propria icona della band.
Fischietto
in bocca Douglas Pearce inizia a dar vita al piacevole film horror,
tipico di ogni inizio spettacolo.
Mazzate
sui tamburi e fischi che vogliono superare i decibel di sopportazione
dell’Orion sono ciò che lo spettatore può ascoltare.
In
merito al vedere, invece, possiamo tranquillamente ribadire quanto
l’entrata in scena dei Death in June sia un momento piacevolmente
emotivo che poche band sanno eguagliare.
Quando
la primissima parte del concerto si conclude e Douglas Pearce si toglie
l’ingombrante maschera, il pubblico ringrazia per il doveroso momento
offerto, tributando un lunghissimo applauso al duo (per la gioia dei
sostenitori, la maschera sarà lasciata in evidenza ai piedi
dei tamburi).
Rispetto
al concerto tenuto un anno fa, i Death in June pongono in essere un
live con meno hit, in luogo di più canzoni per i fan “tuttologi”
(quelli, insomma, che non si fanno sorprendere mai!); è indiscutibile
che immancabili successi siano riproposti da Douglas P e Murphy, ma
è altrettanto evidente come l’impostazione data al live set
odierno sia alquanto differente.
Non
rientrando fra la categoria dei “tuttologi” dei DIJ, ammetto di preferire
l’orientamento che la band scelse per il tour celebrativo della trentennale
carriera.
Tuttavia,
questi rappresentano più dettagli che altro, essendo il livello
qualitativo sempre alto, specie quando i grandi classici sono riproposti
(ci sembra, invero, in alcuni casi con un certo cambio nell’impostazione
melodica dei pezzi).
Tra
i brani che si sono elevati sugli altri, toccando ancor più
le corde emotive di tutti gli spettatori, segnaliamo una immortale
“Kameradschaft” (forse la migliore di oggi) e “All pigs must die”.
“We said destroy” ha un incedere epico e quasi solenne, mentre con
“Little black angel” si ascolta una delle canzoni più apprezzate
e più toccanti dell’intera discografia.
Siamo
stupiti nel trovare un Douglas P alquanto loquace; dialoga spesso
con le prime file e si dimostra molto autoironico, soprattutto in
riferimento alle canzoni che il gruppo ha appena proposto.
Tuttavia,
il lato da “duro” e severo dei Death in June riemerge a conclusione
del concerto, quando Douglas P e Murphy rientrano nel camerino e dal
mixer parte la musica che dovrebbe costituire l’inizio del DJ set
after show.
Il
leader dei Death in June torna immediatamente sul palco e, avvicinatosi
al microfono, urla: “STOP THIS FUCKING MUSIC ……….. WE’LL GO BACK!!!!!”,
facendo chiaramente intendere l’intenzione di proseguire lo spettacolo.
Una
brevissima pausa e poi spazio ai saluti finali lasciati a “C’est un
reve” ……. E questa volta è davvero finita.
Qualche
anno fa Douglas Pearce dichiarò di non volere più suonare
dal vivo, annunciando la morte concertistica della sua band. Poi seguirono
i concerti celebrativi della trentennale carriera.
Osservando
oggi il signor Death in June, felice di suonare, autoironico e sereno
(tranne quando gli vogliono imporre la fine del concerto!), ci sentiamo
di pronosticare come la band sia ancora lontana dal ritiro e che le
intenzioni del suo padrone siano quelle di calcare i palchi europei
ed italiani per molto tempo ancora.
Non
sono sicuro di voler far parte di quella futura partita, ma sono certo,
invero, che il risultato sarà sempre eccellente e la resa soddisfacente,
a scanso di una certa presunta monotonia nel sound DIJ. Perché,
questi, bravi lo sono per davvero.