"Aleph
at hallucinatory mountain"
Current 93
CD/LP (Durtro (EU), Jnana (US) - 2009)
testo
by Giulia Mengozzi
"Who will
deliver me from myself?"
Black
ships ate the sky, 2006
David Tibet si
poneva ossessivamente questa domanda in Black Ships ate the
sky, ripetendola sino a farne una parodia del suo inconfondibile
stile interpretativo, sino a ridurla ad un rantolo stridente.
A tre anni di distanza, la risposta che sorgerebbe spontaneo
dargli è "assolutamente nessuno".
Stavolta al nome
"Current 93" risponde un enselmble di artisti numeroso,
ognuno dei quali foriero del proprio background e del proprio
personalissimo contributo.
Nella parte conclusiva del booklet si articola una carrellata
di fotografie dei partecipanti all'opera, scatti davanti ai
quali, per la maggior parte, non si riesce a fare a meno di
sorridere, vista l'ironia (nient'affatto sottile) con la quale
è declinata l'estetica intrisa di misticismo tipica dell'universo
Current 93. Mi chiedo in effetti perchè diamine una lumaca
di dimensioni pantagrueliche si trovi ai piedi di un ispirato
Ossian Brown, già membro dei Coil e parte del breve progetto
The Nodding Folk. Altro nome noto, altro scatto inconsueto:
ovvero quello nel quale William Breeze si copre il volto con
una macchina fotografica digitale. Ritroviamo anche il violoncellista
John Contreras, Baby Dee, Andrew Liles (già in "Birth
Canal Blues" nonchè autore di recenti remix di alcuni
tra i primi dischi dei Current 93), il chitarrista Matt Sweeney.
Senza dimenticare l'insostituibile Steven Stampleton, naturalmente.
Non dovrebbe suonare sconosciuta Andria Degens, nel cui meraviglioso
progetto Pantaleimon ritroviamo parecchi dei nomi che vanno
a popolare queste righe di presentazione dei musicisti coinvolti.
Stupisce più il ruolo di assoluto rilievo di Andrew WK,
qui produttore e bassista, che dal rumorosissimo "I get wet"
(rumorosissimo in tutti i sensi, considerato il clamore suscitato
dal naso -pare...- autenticamente spaccato a far bella mostra
di sé in copertina) ai Current 93, passando per Bonnie
Prince Billy, ha se non altro dato prova di versatilità
notevole. Per non parlare di Sasha Grey, generalmente ricordata
non proprio in virtù delle sue doti canore - nulla togliendo
a "As real as rainbows", pezzo del quale è protagonista,
in assoluto uno dei più riusciti del disco.
Impossibile non citare James Blackshaw, giovane quanto celebrato
chitarrista. Rolling Stone lo descrive come uno dei fautori
del "nuovo rinascimento acustico". Ed ha appena inciso
per la Young God Records di Micheal Gira, un nome garante di
qualità al di la di ogni possibile recensione.
Credo si evinca come la portata delle personalità facenti
parte (al momento) dei Current 93 sia fondamentale e costitutiva
rispetto al risultato definitivo, eppure credo anche che questo
sia da imputarsi, nella sua essenza, alla sola ed unica regia
di David Tibet.
"Who will deliver me from myself?" è il rimando
a Black ships ate the sky con cui aprivo poc’anzi quest'introduzione
al disco. Non so fino a che punto possa trattarsi di un dettaglio
autobiografico. Ma se mi figuro David Tibet porre questa domanda,
allo stato delle cose, la risposta si andrebbe immediatamente
a ricollegare alla misura in cui "Aleph" è una sua
creatura.
Può far intervenire l'ingombrante basso di Andrew WK
e non c'è dubbio che questo ne risulterà piegato.
Può mettere nella piccola bocca di Sasha Grey una nenia
di frasi intrecciate che vanno a parlarci di imperatori e santi
e stelle che s'eclissano.
Si ha sempre l'incrollabile impressione che nulla possa liberarci
da David Tibet e che nulla possa liberare David Tibet da se
stesso: lui è Adam, lui è Aleph, lui è
la Novantatreesima Corrente, qualsiasi corpo essa trascini con
sé.
V'è, in tutto ciò che porta il nome "Current 93",
un carattere assolutamente personale che sta alla base di progetti
dalle sonorità più diversificate; la capacità
di rimanere inconfondibili senza mai scadere nel riciclaggio
autoreferenziale. Si chiama carisma.
"So when and
what were the revolutions?"
As real as rainbows, Aleph at hallucinatory mountain, 2009
Non sono stati
in pochi quelli che hanno gridato al cambio di rotta, una volta
ascoltato "Aleph at hallucinatory mountain". Siamo innanzi ad
un prodotto snaturato, rispetto agli standard ai quali ci eravamo
abituati negli scorsi quindici anni, all'insegna del cosiddetto
folk apocalittico del quale Tibet è stato tra gli apripista?
A ben vedere, non credo sia così.
Già l'incalzare acido e magmatico della title track del
capolavoro "Black ship ate the sky" credo celasse in nuce ricordi
del modus operandi degli esordi, reiterati mantra al vetriolo
dei quali più e più volte s'è scritto di
come fossero più vicini ad incubi boschiani che alle
avvolgenti ballate di "Thunder perfect mind".
E proprio da "Thunder perfect mind" traggo un altro elemento
che tiene a battesimo l'ultima creazione di Tibet: nei sedici
epici minuti di "Hilter as Kalki" (che cito a puro livello esemplificativo)
si intrecciano a sonorità di richiamo orientale altre
di tradizione squisitamente rock, fatte di assoli magniloquenti,
che non sarebbero sfigurati in un disco dei Comus.
E chi conosce discretamente
la discografia dei Current 93 sa che non a caso cito questo
storico ed ombroso gruppo progressive.
E chi conosce discretamente
la discografia dei Current 93 probabilmente non riterrà
d'aver letto alcunchè di nuovo, considerate le innumerevoli
parentesi lisergiche, se così vogliamo chiamarle, che
costellano l'opera di Tibet e, perchè no, dei suoi "satelliti".
Non riesco a non citare la recente perla psych folk "The sun
adwakens" dei Six Organs of Admittance, disco nel quale ritrovo
molti punti in comune con Aleph, a prescindere dalla montagna
che anche qui capeggia in copertina. E guarda a caso proprio
Ben Chasny (mente dei SOoA) collaborava, tra gli altri, al parto
Black Ships ate the sky.
E qui il cerchio s'è aperto ed il cerchio di chiude,
su Black Ships ate the sky.
A conti fatti, nessuna rivoluzione. Solo l'esplosione di tendenze
mai del tutto sopite nel corso degli ultimi anni.
Pur strizzandovi l'occhio in maniera più che evidente,
non si è tornati alle sperimentazioni luciferine d'inizio
carriera: avrebbe senso, a questo punto, andare a disseppellire
quei primi lancinanti, meravigliosi vagiti industrial?
In compenso, "l'altra tendenza" non ha visto alcun freno: "quasi
all'inizio" affrontiamo un'orgia di chitarre penetranti
e sabbathiane come non se ne sentivano dai tempi di "Lucifer
over London" - il cui riff iniziale è omaggio ai Black
Sabbath, appunto. O dai tempi dell'EP "Horse", se vogliamo svelare
il sopracitato riferimento ai Comus, vista la cover del loro
brano "Diana" presente in quello stesso EP.
Ascoltato l'incipit cantilenato da voci infantili, passate le
forche caudine di "Invocation of almost", il flusso della Corrente
sembra quietarsi sui delicati arabeschi fingerpicking di James
Blackshaw. Non ci si accorge, ad un primo ascolto, di come anche
questa seconda traccia, "Poppyskins", percorra una graduale
discesa verso un fondo nebuloso ed inquietante, ove un amalgama
di violoncello, viola elettrica e distorsioni è cadenzato
dal palpito delle percussioni, per poi dissolversi nuovamente
sulla domanda "Aleph, dove sei?"
Ed Aleph si trova
sulla montagna assieme ad Adam, laddove quest'ultimo vi appariva
invece in solitudine nel primo verso di "I looked at the southside
of the door", dall'EP "Birth Canal Blues". Così come
in "Aleph", Andrew Lilies e Baby Dee sono fautori dei quattro
pezzi enucleati in questa piccola perla: alcuni stralci del
testo di "I looked..." riaffiorano in "On Docetic Mountain".
L'uno una struggente ballata cui perno è un pianoforte
dolorosamente lento, l'altro il cuore stoner del disco: i due
brani vedono come fil rouge Tibet intento a calarsi e al contempo
elevarsi negli anfratti di un cristianesimo gnostico ed ambiguo,
ora declamando, ora sospirando, ora ringhiando le sorti di Aleph
ed Adam, il creatore e l'assassino, l'uno innanzi all'altro
sulla montagna e contemporaneamente unico essere "into the
words of the book". Un'inscindibile dualità che la
musica sembra riflettere sul finale del pezzo, nell'ormai endemico
concatenarsi di viola e violoncello, secche percussioni e chitarre
cariche di feedback.
E qui "Aleph" finisce
di svelarsi. Non credo sia il caso di proseguire oltre la parola
"endemico", oltre questo assaggio di un disco che certamente
non si esaurisce nel carattere delle prime tre tracce, ma che
merita di essere scoperto e vissuto senza una vivisezione critica
(o sedicente tale) alle spalle o a posteriori.
Che "Aleph" sia o meno all'altezza del precedente "Black Ships
Ate the Sky", che possa o meno collocarsi degnamente in un percorso
che vede capolavori indiscussi come "Thunder Perfect Mind" è
affar vostro, delle vostre orecchie e del vostro stomaco. Barcamenarsi
tra note di merito o demerito, tra le stelline o i voti del
caso è un gioco che non mi compete.
Quel che porto di mio è la testimonianza dell'ascolto
di un disco che non può lasciare indifferenti, pregno
di una spiritualità soave come le dodici corde di una
chitarra acustica, abissale come un organo, celestiale come
i cori dei suoi angelo della pornografia - Sasha Grey. Pregno
della concretezza spietata e terrena d'una schiera di chitarre
a raschiare le pagine di una storia scritta in coptico, forse
un vaticinio, forse un'ennesima fantasia.
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