INTRO
Apparentemente
non è facile affrontare l’esame della storia discografica
di uno dei gruppi più influenti degli ultimi trent’anni.
Questo, infatti, rappresentano i Cure, sia per innumerevoli
artisti che hanno
preso spunto dalla musica dei “ragazzi immaginari”, sia per
il nutrito popolo di fan che segue con passione le vicende degli
inglesi.
Affrontare un esame della loro discografia equivale, soprattutto
per chi sta scrivendo, a ripercorrere la crescita artistica
di Robert James Smith, fondatore, mente, compositore e anima
della band.
Nato
a Blackpool il 21 aprile 1959 il cantante e chitarrista (ma
all’occorrenza bassista, tastierista, violinista, ecc.) ha,
dalla creazione del gruppo, plasmato la band a sua immagine
e somiglianza, divenendone l’unico elemento presente su ogni
incisione e caratterizzando la band dentro e fuori dal palco.
Al riguardo, sarà possibile osservare come Robert Smith,
a dispetto della fama di timido che da sempre lo precede, abbia
operato una serie di “rimpasti” della formazione, ogniqualvolta
qualche elemento del gruppo entrava in contrasto con l’impronta
musicale dettata dall’unico deus ex machina del gruppo.
Come sostenne in alcune interviste, Robert Smith definì
particolare la democrazia che regna all’interno della
band. In sostanza, ognuno ha diritto di parola e di decisione,
ma solo fintantoché questi atti non vadano a contrastare
con le decisioni del leader.
E a questa situazione si poté arrivare esclusivamente
attraverso il grandissimo carisma e l’altrettanto grande personalità
del chitarrista. È questa l’unica chiave di lettura possibile
che ci consente di spiegare perché, dopo trent’anni,
sono ancora in circolazione e, soprattutto, in ottima salute
(e come potremmo pensare il contrario per una band capace di
scrivere, nel 2008, un brano come “Underneath the stars”!).
È questo uno dei loro grandi segreti : chi l’ha ascoltato
ed osservato non può non riconoscere a Robert Smith un’innata
tendenza alla leadership, caratterizzata da una personalità
unica.
Un carattere così forte che ha indotto grandi artisti
a collaborare con la band o, ancora, ha portato lo stesso leader
a duettare con emergenti gruppi ancora da svezzare. Ne esce
un quadro alquanto eterogeneo che comprende, tra gli altri,
David Bowie (duetto in occasione del cinquantesimo compleanno
del Duca Bianco), the Glove e Siouxsie and the Banshees
(progetti paralleli all’esperienza Cure), i Blink 182,
i Korn (pregevole l’unplugged che ha visto i cure ospiti
in “Inbetween days/Make me bad”), Blank and Jones, Paul
Hartnoll (Orbital), i Placebo e Billy Corgan,
per citarne solo alcuni.
Tali considerazioni diventano ancora più forti se ci
immaginiamo i loro live show. Questi non sono “fisici” (pensiamo
ad un Dave Gahan o ad un Mick Jagger, per esempio) e Robert
Smith rimane praticamente immobile durante lo spettacolo.
Tuttavia, il leader è dotato di un magnetismo che nessun
altro artista possiede. Non ha bisogno di muoversi o stupire
(anche se durante l’esecuzione dei pezzi più pop si diletta
in esilaranti balletti); la sua presenza è già
talmente forte che riesce a calamitare gli sguardi di tutti
e toccare il cuore di ogni singolo fan.
Non è infrequente ascoltare, in chi non li ama, parole
di stima nei confronti di Robert Smith. Può piacere o
non piacere, ma non gli si può negare la straordinaria
personalità e l’indiscussa professionalità.
Ecco che, al tredicesimo album, ci si può sbizzarrire
su quello che potrebbe essere il migliore capitolo discografico
degli inglesi. Ci si può divertire inventando alcune
fasi artistiche che hanno caratterizzato la carriera di Robert
Smith, e via discorrendo.
Così, ad esempio, sarà facile considerare l’esordio
discografico di “Three imaginary boys” come un lavoro a sé
stante, ancora influenzato dalla moda punk del momento, o, ancora,
si potrà individuare negli album “Seventeen seconds,
“Fatith” e “Pornography” il periodo dark della band (pensiero
condiviso dai più).
Tutte teorie che spesso contrastano con quelle dello stesso
Robert Smith.
Così, ad esempio, il sopraccitato assunto in forza del
quale il loro periodo dark cesserebbe con “Pornography”, contrasta
con il pensiero del leader che, nel 2003, dette alle stampe
“Trilogy”,
un’opera comprendente i tre veri dark album della band: “Pornography”,
“Disintegration” e “Bloodflowers”.
Ognuno, infatti, ha una percezione propria delle singole canzoni
e degli album dei Cure; questo fa si che, in merito alla discografia
di un grande gruppo (del più grande gruppo, direbbe chi
scrive), non esista un’interpretazione comune a tutti, ma soltanto
un’interpretazione.
Esistono alcuni elementi oggettivi in una recensione: l’indicazione
delle canzoni, la line up, la copertina (anche se questa può
essere diversamente interpretata!), lo studio di registrazione,
ecc.; ed esistono, altresì, elementi che sono vissuti
intimamente dal recensore.
L’intento del presente lavoro è proprio quello di unire
i due aspetti sopra esposti. Accanto ai riferimenti oggettivi,
traspariranno un po’ di quelle emozioni che mi hanno spinto
ad amare così intimamente la band.
È bello poter continuare a sognare con le proprie passioni
ed è fantastico avere la certezza di non poterne mai
guarire; “I must fight this sickness …… find a cure”.
(foto:
Robert Smith insieme a Gianmario
Mattacheo)
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