Web-zine di musica, cultura, arte e tutto l'universo oscuro

 

Label

Cerca tra le nostre pagine
facebook

 

THE CURE live
@ Wembley Arena, London
11, 12 e 13 Dicembre 2022

Testo e fotografie di Gianmario Mattacheo

 

Primo atto (1/3).
11 dicembre 2022

Arrivati quasi alla conclusione di questo tour, mi permetto, almeno una volta, di non scrivere una recensione, ma di giocare con una serie di lettere e nomi che ci frullano in testa in questa nostra passione.

L come Londra, allora, perché qui mancavo dal 2018, quando i Cure festeggiavano i loro primi quarant’anni.

W come la Wembley Arena, ovvero una delle arene più prestigiose della City (e con la data del 13 dicembre saranno 7 le volte in cui ho visto qui la banda Smith).

A come “Alone”, ovvero l’apripista di ogni concerto targato 2022, ma anche A come “And nothing is forever”, perché niente mi ha mai toccato così nel profondo.

B come “Burn”, così tornando a casa mi riguardo il “Il corvo”.

I come Inbetween days, perché non c’è festa senza quel pop di “The head on the door”.

O come “One hundred years” perchè una volta si diceva che non “Importa se moriamo tutti”.

La N per le notti di “At night” e di “A night like this” (nonostante l’assolo di Gabrels, per il quale si potrebbe individuare una nuova fattispecie di reato: vilipendio alla canzone).

P per “Play for today” e “Push” con le loro immancabili partecipazioni del pubblico.

C per “Cold” e che bello è stato il suo ripescaggio in questo tour.

La F di “A forest”, perché se c’è un inno in assoluto è proprio questa canzone.

Ancora la F. Questa è di “Faith”, canzone che conosce pochi rivali, soprattutto del primo periodo.

H per il paradiso di “Just like heaven”.

C per “Charlotte sometimes”, un evergreen come nelle vecchie serate dark.

E per “Endsong” e giù lacrime senza ritegno.

La I per “I can never say goodbye” perché l’amore per un fratello non ha termini di paragone e mai si pronuncerà la parola addio.

“M” per la consorte Mary, presente e partecipativa ai lati del palco, qui a Wembley. Ma M sta anche per Moglie (la mia in questo caso), per l’immancabile e prezioso supporto.

P per pubblico o P per popolo, è uguale. Quello dei Cure.

6 come i Cure che stanno sul palco (bentornato Perry, qualunque sia il tuo futuro in seno alla band, ti auguriamo il meglio).

46 per i concerti di questo “Shows of a lost world tour”.

B per il “Bad Wolf” di Simon, l’alfiere più importante della scacchiera di Robert. Che la tua calzamaglia possa continuare a ballare per il palco ancora per molto tempo.

R per Robert, e chi se non lui. Perché, diversamente, proprio non si può terminare.

 

Secondo atto (2/3)
12 dicembre 2022

Penultimo capitolo di questo “Shows of a lost world tour” e ci ritroviamo ancora alla Wembley Arena, ormai mitico luogo in cui i Cure sono soliti chiudere le proprie fatiche concertistiche, dopo un lungo ed estenuante peregrinare per tutta l’Europa.

Forse il botto emotivo ci colpirà ancora di più domani, ma non nascondiamo che un inizio di malinconia sembra iniziare a bussare alla nostra porta; ci penseremo a tempo debito. Ora è il momento per un po’ di cronaca.

Vociare del pubblico sempre più insistente, poi un rumore di tuoni, unito ad alcuni lampi, anticipa l’ingresso sul palco dei musicisti e, mentre partono le prime note del concerto, il cielo stellato ci porta immediatamente dentro lo show. “Questa è la fine” canta Robert nell’incipit di “Alone”, anche se è l’inizio di un’altra favolosa avventura, lunga la bellezza di 28 canzoni.

Nella prima porzione del concerto “At night” avvolge tutta la Wembley Arena di un’atmosfera magica che, subito dopo, continua con il classicone dark di “Charlotte sometimes”. Sono due canzoni che segnano la strada di un intero concerto.

“Burn”, dopo tanti anni di silenzio, è da qualche stagione un classico irrinunciabile del gruppo, così come il siparietto in cui Robert si appoggia su Simon, schiena a schiena in un momento di preziosa complicità.

“The figurehead” e “A strange day” sono perfettamente eseguite e continuano a trasportarci nel clima di un concerto nato per scatenare emozioni tanto forti quanto intime, invece “Push”, “Play for today” e “Shake dog shake” hanno il compito di far virare il concerto sul ritmo, sulla forza e sulla partecipazione collettiva, attraverso un piglio incredibile e una potenza sonica difficile da eguagliare.

Parte del leone per l’album “Disisntegration” con 6 pezzi, seguito da “The head on the door” con 4 e “Seventeen seconds” con 3, mentre rimangono ancora al palo gli ultimi due in studio, a testimoniare come siano indubbiamente i capitoli meno felici del gruppo.

Quando arriva l’ultima canzone del mainset, non possiamo rimanere insensibili alle parole contenute in “Endsong”: “È tutto finito, è tutto finito, Non è rimasto niente di tutto ciò che ho amato, Sembra tutto sbagliato, È tutto finito, è tutto finito, è tutto finito,Nessuna speranza, nessun sogno, nessun mondo”.

Il primo encore è sempre il più atteso. Alla dedica al fratello, segue un vero e proprio tributo all’ineguagliabile album del 1989. Finalmente, riesco a sentire “Plainsong” quest’anno e, anche se rende esponenzialmente di più quando è presentata come apripista dei concerti, conserva intatte tutte le sue dolci qualità. Poi Robert Smith ci fa vedere quanto voglia portare al limite le sue capacità vocali, prima con “Prayers for rain” e poi con “Disintegration”. Con la prima, non giocando per nulla al risparmio, concede un acuto esattamente speculare alla versione live del 1989 (riascoltare “Entreat”) e, con la canzone che titolava quell’album, finisce senza un briciolo di energie.

Solo in parte i segni dell’età suggeriscono, anche a noi, quanto il concerto stia volgendo al termine, perché, quelle due ore e mezza, sono volate, in effetti, a velocità quadrupla rispetto al normale corso di un orologio.

Ma, come da copione, la band non si fa mancare l’ultimo rientro; quello che si definisce pop potrebbe (erroneamente) essere letto in senso dequalificante, quando, in realtà, rappresenta una delle tante facce che Robert Smith ha splendidamente assunto in più di quaranta anni di carriera. E, allora, ci sono “Lullaby” (che io spero sempre non faccia), c’è il funky elettronico di “The walk”, c’è la “Friday” che quest’anno è diventata una splendida trentenne, e ci sono le altre, fino a “Boys don’t cry”.

Lui alla fine sorride e dice “See you again” e allora perché piangere, dopotutto?

… to be continued

terzo atto (3/3)

 13 dicembre 2022

Eccolo arrivato, il quarantaseiesimo concerto, tappa finale di un tour sorprendentemente forte ed emotivo come mai in passato i Cure erano riusciti a porre in essere.

Ad anticipare i nostri, ancora una volta i Twilight Sad  (a conti fatti, ormai uno dei gruppi che ho visto di più nella mia carriera di guardone rock!) e dopo l’ultima sviolinata da parte di James Graham, inizia l’ultimo rituale dei roadie, per preparare il campo ai cinque musicisti agli ordini di Robert Smith.   

Ad ogni canzone parte la solita partecipazione, accompagnata, questa volta, ad alcuni flash con i quali vogliamo fissare nella memoria attimi e frammenti di un intero tour.

Così, per esempio, sono certo che mi ricorderò di “Pictures of you” non solo per quel duetto con Simon Gallup (un po’ da cliché ma che piace tanto a tutti), ma anche per quell’abbraccio che Robert riserva alla sua chitarra, compagna di vita fedele e quasi una prolunga delle sue braccia.

“Ci provo a non commuovermi questa volta”, mi dico, quando parte l’intro di “And nothing is forever”. Ma, anche oggi, l’impresa risulta vana, mentre partono le note pennellate da O’Donnell, sai già che quelle parole faranno ancora breccia in te … e chissenefrega del vicino, è anche il mio momento questo, lasciatemi godere e piangere allo stesso tempo.

Come ormai sappiamo, il mainset si chiude con due canzoni in cui le chitarre la fanno da padrone. Con “From the edge of the deep green sea”, è proprio Robert Smith a ribadire il concetto, quando afferma (nel recente booklet della deluxe edition di “Wish”): “E’ una canzone piuttosto delirante, e senza dubbio il mio miglior momento da aspirante Hendrix”. “Endsong”, invece, è una suite che cresce piano piano, per accompagnare il dolore del suo autore.

Al rientro, quando Robert canta l’amore per il fratello, sembra che l’intera Wembley Arena si ghiacci di fronte alla sua espressività. Poi, arriva la prima sorpresa del tour con “Three imaginary boys” e le luci ad illuminare i soli Smith, Gallup e Cooper. A confermare quanto il primo dei rientri sia forse quello dal più alto valore artistico, arriva una versione da urlo di “One hundred years”, una “Primary” (singolo dell’album “Faith”) e “A forest”, chiusa da un rabbioso Simon, mentre percuote e violenta il proprio basso elettrico.

Rientrato in scena per l’ultimo encore, Robert Smith ha parole di ringraziamento un po’ per tutti, da Twilight Sad, fino ad arrivare a chi con tanta passione l’ha seguito fino a questo punto.

Ad un copione che pare ricalcare il classico rientro pop (con l’aggiunta di una “Doing the unstuck” non eseguita proprio al massimo), il capobanda vuole fare l’ultima sorpresona di fine tour. Così, dopo “Boys don’t cry”, si rimane sul palco, mentre inizia a perdere il rubinetto di “10.15 Saturday night” che lascia il posto alla miglior conclusione possibile. Quando la chitarra di Robert Smith scandisce le note di “Killing an arab”, la platea diventa un’onda in movimento in cui rimanere in piedi non è proprio la cosa più facile del mondo, ma che, tuttavia, non impedisce a ciascuno di noi di cantare le parole del primo singolo del gruppo.

Concludiamo anche questo tour. Un tour che abbiamo così tanto desiderato da viverlo con ancor più intensità rispetto al passato. E di intensità ne abbiamo proprio presa tanta, perché ci sono state tante di quelle cose che, si sa, le recensioni solo in piccola parte possono cogliere. Pensando (e rileggendo) le mie considerazioni finali dell’ultimo tour (2019), mi accorgo quanto quello finito da sole poche ore sia stato, in effetti, molto diverso. Tanto il precedente viveva di un contagioso buon umore, quanto questo ha scavato intimamente nell’animo di tutti. Non abbiamo più i vent’anni spensierati e il tempo ha segnato cicatrici che anche lo specchio più gentile non può camuffare. Ecco, ascoltando le parole delle nuovissime canzoni di Robert Smith siamo sempre più convinti di questo e, mai come in passato, quel signore in nero ha scavato dentro i nostri più intimi sentimenti e lo ha fatto mostrandosi nudo di fronte ai sui fan. Fragilità; è questa una parola che legherei (molto) ai concerti di quest’anno. Spiattellando il dolore, la constatazione del passaggio del tempo, la paura del futuro, Robert Smith ha trovato la chiave per aprire il suo ed il nostro cuore e, facendolo, ha cementato ancora di più quell’indissolubile catena che ci tiene fedelmente ancorati a lui.

Foto del 12 Dicembre   
   
   
   
Foto del 13 Dicembre