The
CURE
@ BBK live, Bilbao, 12
luglio 2012
Testo
Gianmario Mattacheo
Foto: Silvia Campese
È
difficile pensare a qualcosa di differente da raccontare quando si
scrive circa l’ennesimo concerto della medesima band, specie se parliamo
di concerti tenuti nell’arco di poche settimane.
Tutto
farebbe immaginare ad un disco che, più o meno, tende a ripetersi
sempre uguale; insomma, sembra che le sorprese e le cose memorabili
da raccontare si debbano necessariamente ricercare altrove. Non è
questo il caso, ma partiamo dal principio che forse è meglio.
I
Cure di Robert Smith tornano in Spagna nella prosecuzione del summer
tour 2012, dopo la tappa di Barcellona del mese scorso, anche se parlare
di Spagna farebbe ampiamente andare su tutte le furie gli abitanti
della zona.
Siamo,
infatti, in terra basca e, senza essere degli esperti di dinamiche
politiche spagnole, siamo sufficientemente a conoscenza di quanto
il discorso autonomista sia caro a questa area geografica.
La
splendida cittadina di Bilbao ospita un festival alquanto interessante
in riferimento ai nomi in cartellone, per un programma che vede quali
headliner i Cure e, nelle rimanenti due serate, i Garbage e i Radiohed,
oltre ad una moltitudine di altre band, secondo la normale tradizione
dei grandi festival europei.
Organizzato
presso un grosso parco poco distante dalla cittadina, il mega ritrovo
musicale è facilmente raggiungibile grazie all’organizzazione
perfetta del BBK Live. Le navette gratuite che partono in continuazione
dallo stadio di calcio “San Mamès” rendono più agevole
l’organizzazione di chi ha avuto l’occasione (beh, visto i prezzi,
non è proprio il caso di parlare di occasione!) di acquistare
il biglietto: l’unica cosa richiesta è conservare le forze
per un’altra lunga giornata di musica.
Il
cartellone è particolarmente severo per chi aspetta i Cure
in terra basca, essendo lo spettacolo di Smith e soci fissato per
le 23.00. Un’attesa particolarmente difficile nel parco di Kobetamendi
che risulta essere stracolmo e caotico all’inverosimile; ogni movimento
risulta essere un’impresa ed il raggiungimento dei posti di ristoro,
piuttosto che dei servizi igienici, è un’avventura dall’esito
non proprio scontato.
Quando
alle 23.00 tutto sembra pronto sul main stage, al vociare insistente
delle prime file, in realtà non segue l’ingresso sul palco
della band. Qualcosa non sembra funzionare.
Passano
i minuti e si inizia a temere il peggio. In
circostanze normali, qualche addetto all’organizzazione farebbe una
comunicazione al pubblico, ma nel nostro caso il ruolo di speaker
è riservato proprio a Robert Smith. Come
se si sentisse responsabile dei ritardi (scopriremo dopo che gli stessi
sarebbero stati causati da problemi tecnici alle tastiere), il leader
dei Cure si scusa con i fan e promette che, a breve, il concerto avrà
inizio. I
problemi tecnici, tuttavia, sembrano più complessi del previsto
ed allora accade quello che proprio non ti aspetti, quello che nessuna
altra band al mondo può permettersi di fare.
Robert
Smith, sentendosi (chissà poi perché!) ancor più
responsabile torna (unico del gruppo) sul palco con la sola chitarra
acustica. Ancora
qualche scusa e via con un piccolo set acustico, assolutamente improvvisato.
Rimaniamo
basiti ed esterrefatti, tanto che le grida di entusiasmo paiono un
po’ strozzate dalla sorpresa e dalla commozione. “Three
imaginary boys”, “Fire in Cairo” e “Boys don’t cry” sono il capitolo
zero del concerto di oggi; versioni acustiche improvvisate e sincere
e, perfette nella loro imperfezione (le prime due non rientrano tra
quelle che propone nel 2012), ci dicono una volta di più circa
il carattere di Smith, pronto a mettersi in gioco in prima persona
pur di accontentare i fans! Nel
fare questo gesto, inoltre, il leader non manca di ricordare l’importanza
dei suoi compagni di viaggio (ancora nel backstage), quando ricorda
al pubblico che il mini set acustico è terminato, essendo questo
un concerto dei Cure e non di Robert Smith; il modo, in pratica, più
nobile del capitano per omaggiare e non dimenticare ogni componente
del gruppo.
Quando
si inizia a sentire l’intro di “Tape” che anticipa l’ingresso ufficiale
della band e la conseguente apripista “Open”, notiamo che è
ormai mezzanotte; pronti e via, allora, per affrontare la notte in
compagnia dei Cure.
La
fatica accumulata in tutta la giornata (e nelle tappe precedenti)
sembra svanire all’improvviso, grazie alle cure del dottor Smith;
si osserva il palco e si inizia a cantare, per quello che veniva annunciato
come un concerto lungo circa tre ore (vedremo). Tutti
i musicisti (in vestito nero, d’ordinanza) salutano il pubblico e
proseguono con “High” e “The end of the world” la scaletta odierna.
La
conca del Kobetamandi (è splendida, tra l’altro, la visuale
che si ha dall’alto della città di Bilbao) diventa una bolgia,
quando gli strumenti iniziano a raccontare “Push”e “From the edge
of the deep green sea”, classiche rock song partecipative; e con l’accoppiata
“Inbetween days”/”Just like heaven”, la band offre due tra le sue
più classiche canzoni pop.
“The
caterpillar” è una festa, “The walk” è una delle meglio
riuscite di quest’anno ed il trio dei primi ‘80 composto da “Play
for today”, “A forest” e “Primary” è il momento più
puro del sound dei Cure.
Non
è difficile notare come in “Wrong number” Reeves Gabrels si
senta più a suo agio e libero di far svolazzare la sua chitarra
elettrica, in quel pezzo che, a ragione, avverte più suo in
virtù di quella collaborazione con il gruppo che portò
all’uscita del singolo nel 1997.
La
batteria di Cooper che anticipa “One hundred years” è accolta
con il solito entusiasmo, mentre “End” è il brano di rock oscuro
che, meglio di tutti, è adatto per chiudere il main set.
Così
come a Roma, anche qui il primo rientro è riservato alla sola
“The same deep water as you”, per un sogno che dura poco meno di dieci
minuti.
L’ultimo
(al solito lungo) rientro è dedicato alle ultime cartucce;
un po’ di pop, un po’ di dance ed un po’ di qualcos’altro rappresentano
il mix ideale per concludere la festa.
Ecco
arrivare, tra le altre, “Friday I’m in love” (balli scatenati), la
“Just one kiss” (direttamente dalla compilation del 1983 “Japanese
Whispers”), i ritmi spagnoleggianti di “The blood” (omaggio al posto
in cui stanno suonando), il gioiellino di “Dressing up” e la super
ballabile “Let’s go to bed” (eh sì, è quasi ora, in
effetti).
Ultime
tre canzoni con l’immancabile (per fortuna) “Close to me”, “Why can’t
I be you” e “Boys don’t cry” con cui si chiude anche l’odierno concerto.
I
ricordi ci consentono di non dimenticare un appuntamento estremamente
importante, affinché lo stesso si possa fissare nella memoria.
Probabilmente,
di questo concerto ne conserverò molti, ma uno in particolare
sarà in cima agli altri, già ne sono sicuro.
Mi
ricorderò l’immagine di me stesso, inebetito con una fotocamera
in mano; uno che si trova incapace di esultare quando la sorpresa,
la stima, ed il rispetto infinito per una persona sono capaci di andare
ben oltre il discorso musicale.
Arrivava
Robert Smith sul palco con la sola chitarra acustica. Da solo. Poi,
iniziava il tutto.