Due volte a Parigi in
pochi mesi non mi era mai capitato, ma un concerto
sotto la Tour Eiffel deve essere visto,
espressione di un momento imprescindibile per un
tour dei nostri.
Il palazzetto è quello di Bercy (ora chiamato
Accor Arena), luogo in cui i Cure suonarono qui
nel 2008. Ricordo ancora perfettamente quella
“pazzia”; un’esibizione che sfiorò le quattro ore
e mezza (ma riuscirei oggi a resistere? Dubito) e
una band molto diversa da quella attuale, con
qualche elemento in meno … ed un Porl Thompson in
più (purtroppo ora c’è Gabrels).
Decisamente coccolati i
blu di Francia che con quest’ultima data nella
capitale arrivano addirittura a otto concerti e
una delle motivazioni di tale scelta è ben
evidente dall’entusiasmo che accompagna i concerti
della band.
L’ampio palazzetto parigino è già colmo per metà
quando iniziano a suonare i Twilight Sad che,
anche qui, si fanno apprezzare con un’esibizione
di livello. Il Crepuscolo
Triste è una piacevole anticipazione del main
event e quando parte “There’s a girl in a corner
(brano pubblicato anche su 45 giri con la
partecipazione di Robert Smith) non fatichiamo ad
ammettere emozioni.
Ma veniamo a noi. Dopo che
i roadie hanno sistemato e preparato i ferri del
mestiere, tutto è pronto per lo show, mentre il
boato diventa assordante quando entrano in scena i
Cure per l’ultima esibizione francese del tour.
Dagli altoparlanti arrivano i tuoni che anticipano
il buio in sala, il cielo stellato sul maxischermo
e, infine, l’entrata dei nostri. “Alone”,
“Pictures of you” sono l’ariete che fa breccia da
subito nel cuore dei fan, e poi è pura estasi
l’accoppiata dell’amore, prima quello più leggero
e romantico di “Lovesong” e poi quello più maturo,
forse triste e raccolto, di “And nothing is
forever”. La malinconia della serata si eleva
ancora di più quando Robert Smith annuncia una
canzone da “Bloodflowers”: “The last day of
summer”, anche se non sempre proposta durante il
tour, ha una sua perfetta collocazione,
interpretando alla
perfezione
il mood così intenso che caratterizza
quest’autunno di concerti.
“A fragile thing”,
delle nuove canzoni, è ancora quella che mi sembra
brillare con minore intensità, ma quando arriva
“Charlotte sometimes” il pubblico francese sembra
perdere la testa per quel singolo targato 1981 e
con “The figurehed” lo stato di godimento dei
transalpini si mantiene ad un livello di
eccellenza.
E vai a capire perché alcune canzoni ti
fanno un effetto diverso di volta in volta. Oggi è
il caso di “Faith” che mi sento di eleggere a
brano della serata; praticamente non c’è un
centimetro della mia epidermide rimasta
insensibile al capolavoro che diede il titolo al
terzo album della band; poi, “A forest” ha gioco
facile nel fare il resto, in cui la partecipazione
del pubblico offre un colpo d’occhio aggiuntivo
alla cornice presentata dal palco. Le ultime 7
canzoni sono usate dai Cure per salutare al meglio
e in festa i fan. Si impazzisce con “The walk” e
“Close to me”, poi, quando arrivano i cuori di
“Friday I’m in love” è più facile trovare l’acqua
nel deserto, piuttosto che qualcuno che si astenga
dal ridere o ballare. Siamo quasi stufi dei
detrattori (mai considerati, peraltro), ma mi
piace riportare le parole che Massimo Giacon ha
scritto in occasione della data padovana, mentre
giustamente critica i sopraccitati denigratori o
hater: “Ma che grasso! Ha fatto i capelli tutti
bianchi! Alla sua età ancora quel rossetto e
quella faccia truccata, ma sembra mia zia. Per
dire giusto le cose meno offensive. Poi, dopo i
primi concerti della tournèe mondiale … tutti
zitti. Perché i Cure sono ancora qui, in barba a
band più giovani”. Ok, ma Giacon a parte, il
problema è come chiudere queste righe di commento
al concerto. Potrei usare alcune formule rodate e
finirla in bellezza, senza lode e senza infamia.
Ma la chiusa più giusta, in realtà, è ammettere
che questa non è la recensione di un concerto,
semplicemente perché quelli dei Cure non sono
concerti. Sono dei viaggi. Ecco, ho trovato la
chiusa. Fine.
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