Web-zine di musica, cultura, arte e tutto l'universo oscuro

 

Label

newsletter


THE CURE

supporter : AND ALSO THE TREES

HAMMERSMITH APOLLO, LONDRA 21 e 22 Dicembre 2014.

Testo e foto Gianmario Mattacheo


21 DICEMBRE 2014

Un regalo di Natale quanto mai gradito quello che Robert Smith e soci hanno voluto dedicare ai propri fan. Una doppietta di concerti (divenuti tre in corso d’opera, con la data del 23 dicembre) per festeggiare a suon di musica i classici del repertorio.
Non un tour, dunque, ma “solo” tre spettacoli in tre sere in cui la band decide di giocare in casa scegliendo uno dei teatri più storici della capitale inglese.
Finalmente arriva per il sottoscritto il momento di vedere all’Hammersmith Apollo il gruppo di Smith, dopo che nella medesima location ebbi l’occasione di gustarmi gli spettacoli di Stooges, Suicide e Sonic Youth.

Ancora Londra, si diceva, dopo aver lasciato la band impegnata in quell’estenuante uno due alla Royal Albert Hall di fine marzo. Certo l’Hammersmith non ne può riprodurre la magia, ma rimane un teatro dalla suggestione altissima in cui si respira una storia davvero invidiabile. È come se le pareti dell’Apollo fossero impregnate di tutte quelle note musicali riprodotte nel tempo da grandi artisti; mitici gruppi che ne hanno accresciuto il nome e contribuito rendere ancor più speciale il luogo.
Ad anticipare il main event, si presentano sul palco gli And Also the Trees, grande band che, seppur a singhiozzi, procede una carriera di qualità musicale, fin dai primi ottanta. Da quell’album omonimo che, prodotto dall’ex Cure Lol Tolhurst, scelse il filone più oscuro e minimale del post punk.
Il perché si sia arrivati agli And Also The Trees, quale band di supporto, trova una risposta nelle parole del chitarrista Justin Jones, quando attraverso i canali web della band dichiarò di essere continuamente in contatto con Robert Smith. Jones aggiunse che fu proprio Smith, colpito favorevolmente dall’ultimo lavoro in studio degli AATT (“Hunter not the hunted”), a chiedere al gruppo di unirsi per alcuni concerti e quando si presentò l’occasione di queste date natalizie all’Hammersmith Apollo, tutte le richieste e gli inviti trovarono risposte positive.

Alle 20.00 i Cure fanno l’ingresso sul palco. L’ovazione è forte quando la risata priva di gioia di “Shake dog shake” ha l’onere di fungere da apripista. L’adrenalina scorre subito a fiumi nel pezzo più collerico di “The top”. L’urlo di Smith, le risposte altrettanto violente del pubblico e le chitarre impetuose creano da subito un impatto sonoro altissimo, reso ancor più godibile dall’ottima acustica dello storico teatro.
Con il primo pezzo, in realtà, Smith e soci fanno una scelta ben precisa: riprodurre nella sua totalità “The top”, l’album che in questo 2014 spegne le trenta candeline (Solo la conclusione del concerto ci avrebbe rivelato questa scelta artistica, in quanto i brani di quell’album sarebbero stati proposti random ed intervallati dalle  - MOLTE- canzoni del restante repertorio Cure).
Ed allora, sul versante “The top” ci piace segnalare il pezzo che titola l’album (dopo il primo encore): lento, narcotico e struggente, rimane una perla ed un regalo nella sua versione live. “Wailing wall e l’incantevole “The empty world” (soprattutto) sono canzoni che il fan di vecchia data desiderava ascoltare da molto tempo, mentre “Dressing up” è uno dei brani migliori di quell’album del 1984, omaggiato con questo concerto.
Il grande cantante e chitarrista appare particolarmente sereno e perfettamente a suo agio sul palco. Dialoga frequentemente con il pubblico e si trova spesso a sorridere, mantenendo tuttavia, in ogni momento dello show, il controllo totale della situazione. È lui che in più occasioni impartisce gli ordini agli addetti al suono e contestualmente detta i tempi agli altri musicisti. Simon Gallup, impeccabile nel suo look da biker rockabilly, è da sempre la spalla ideale del leader; Jason Cooper (batterista di lunga data) è iper attento a non perdersi gli “ordini” del capitano; Roger O’Donnell, nel suo look da paggetto, non perde occasioni per sfoggiare sorrisi di plastica e Reeves Gabrels non sembra ancora entrato nel mood giusto delle canzoni scritte da Smith.

Tra i brani che hanno lasciato il segno sugli altri, ricordiamo una non scontata “Like cockatoos”, accolta benissimo dalla platea e “Charolotte sometimes” che con il suo muro di tastiere rappresenta una delle più belle gemme dark wave del primissimo periodo.
“Close to me” è, sul versante easy, una di quelle canzoni che meritano il costante inserimento in scaletta, mentre su quello del romanticismo puro è per “Pictures of you” che ci sentiamo di ripetere le medesime espressioni. Il brano rappresenta, inoltre, anche il momento in cui Smith e Gallup si trovano a parlare e sorridere, confermando la sintonia ed un’amicizia che dura dalla fine degli anni settanta.
Want”, anticipata da un urlo liberatorio del leader durante l’introduzione musicale, è perfetta e speculare rispetto alla versione in studio, “One hundred years” è un macigno che porta il dovuto clima nichilista nell’arena, e con “Give me it” la band riesce a ricreare quei momenti di follia rumorosa che ne fanno una delle esecuzioni più sorprendenti di questo concerto.
Verso la conclusione, alcuni inconvenienti tecnici al basso non impediscono a Simon Gallup di suonare; pur se da accovacciato e
continuamente in contatto con il proprio roadie, il bassista riesce ad essere efficace e rimanere attaccato perfettamente ai pezzi proposti on stage.
Uno dei momenti più alti di stasera si ha quando “Three imaginary boys” anticipa “M”, “Play for today” ed “A forest”, quale mini set di canzoni di provenienza “Seventeen seconds. “A forest”, per chi non lo sapesse ancora, è la summa del Cure sound. Una sintesi, invero, alquanto precoce, se consideriamo che l’inno di “Seventeen seconds” spegnerà, nel 2015, le 35 candeline! Quando arrivano le tastiere di O’Donnell, il pubblico incalza la band con una partecipazione sempre viva, accompagnando i musicisti in una corsa dalla durata di 7 minuti. Una canzone che non sente il peso degli anni; come se un incantesimo oscuro le abbia donato la capacità dell’autorigenerazione, lasciando a noi il piacere di riscoprirne il suo rinnovato potenziale, ascolto dopo ascolto e con continuo trasporto.
Quando Robert si avvicina al microfono, confessando che anche stasera ha sforato sul tempo concessogli dall’organizzazione (…….. ma che “Oggi va bene lo stesso perché è Natale!!!”), comprendiamo una volta di più come questo ragazzo immaginario sia nato per stare sul palco e fare del suo lavoro la sua grande passione e, al contempo, la gioia più grande e genuina dei suoi fan.
Ultima fatica, allora, con ultime canzoni snocciolate a ritmi incalzanti, in cui una sorprendente “Hey you”, da “kiss me kiss me kiss me”, rappresenta il sigillo definitivo.

Tre ore abbondanti di spettacolo per l’augurio natalizio più eccezionale che si potesse desiderare.

 

22 DICEMBRE 2014

Day two all’Hammersmith di Londra.
Praticamente gli stessi volti osservati nella giornata di ieri si apprestano a bissare un’altra maratona (attesa prima, e concerto poi) di musica insieme ai Cure. Non è certo facile bissare spettacoli così intensi senza tregua alcuna, senza neppure una giornata di riposo, senza giocare al risparmio.
Regola che vale per i sostenitori del gruppo, ma soprattutto regola che vale per i Cure, una delle pochissime band al mondo capace di instaurare un rapporto speciale con il proprio pubblico e, in forza di questo, una band che continua a concepire gli spettacoli come autentiche maratone estenuanti: l’unico modo per sentirsi vivi(?), l’unico modo di cementare il sodalizio con i fan(?). Certamente è l’unico modo di Robert Smith di stare sul palco.

Gli And Also The Trees sono ancora la band che ha il privilegio di aprire la serata. Rispetto a ieri, ci sembrano ancor più sciolti ed in sintonia con l’Hammersmith. Ammettiamo che non debba proprio essere uno scherzo suonare in una struttura come questa, ma la band di Simon Huw Jones pone in essere un concerto dignitoso, godibile e con quel giusto mood preparatorio ai Cure. Insomma, non sempre gli organizzatori azzeccano la band di supporto: questo Natale siamo stati decisamente fortunati.
Puntuali alle 20.00 i Cure fanno passerella posizionandosi davanti ad i rispettivi strumenti. Cooper è il primo (ed il rumore all’Hammersmith Apollo si intensifica), poi arriva Gabrels che si gode il ruolo di “nuovo virtuoso di casa Cure”; O’Donnell ammicca il pubblico con uno sguardo un po’ convinto; Gallup, mentre imbraccia il basso, ha l’espressione severa di chi si appresta a realizzare una grande performance (ed il rumore in sala raggiunge già decibel pericolosi); e poi arriva il capo che sorride piacevolmente divertito mentre afferra la chitarra e si avvicina al microfono (ed il rumore generato nel teatro crediamo che possa essere sentito in tutta Londra!!!). Si (ri)parte.

Anche oggi è il brano d’apertura di “The top” che apre le danze. Smith invita il suo popolo di adepti a scuotersi; questi rispondono in coro ed all’unisono, con un tonante “Shake dog shake”, non fanno mancare l’affetto ed il sostegno.
Lo schema è quello proposto ieri: l’intero set di canzoni di “The top” mischiate con il grande repertorio Cure. La band, tuttavia, non ripropone fedelmente lo spettacolo di ieri, sostituendo molti brani con altri pezzi che, esclusi ieri, “spintonavano” per ritrovare la propria celebrità concertistica. Una scelta che rende ancor più piacevole lo show.
Piggy in the mirror” anticipa “A night like this”, forse la canzone in cui Gabrels si dimostra lontano anni luce dalle musiche dei Cure: troppi svolazzi, troppi virtuosismi alieni al sound della canzone; solo la chitarra di Smith riporta pace al pezzo del 1985.
Una chitarra (quella di Smith) che sa essere firma prima ancora che arrivi la melodia del pezzo. Un suono che in trent’anni è stato imitato da chiunque ma che chiunque non ne ha mai saputo ripetere il feeling, il mood, il pathos e l’energia. E poi arriva quella voce; quella voce che è sua e sua soltanto. “Say goodbye on a night like this”, ed esplode l’arena.
“A man inside my mouth” è un non scontato ripescaggio, “The walk” è la solita bomba dance funk che non può mancare e “The caterpillar” mette in mostra il genio creativo di Smith ed il suo totale senso melodico.
“From the edge of the deep green sea” è un delle più classiche rock song (tutti all’Hammrsmith Apollo hanno le mani sollevate) e “Push” ritrova il posto in scaletta, dopo essere stata accantonata ieri. Robert Smith (al solito) sorride divertito osservando i fan delle prime file mentre gridano il ritornello della canzone: sono due momenti di piacevolissima partecipazione collettiva.
La doppietta pop di “Inbetween days” e “Just like heaven” è, ad inizio concerto, la rappresentazione e sintesi del versante piacevolmente easy della band, mentre con le speculari “Never enough” e “Wrong number” (singoli rispettivamente del 1990 e 1997) arriva finalmente il momento in cui Gabrels non si sente un pesce fuor d’acqua, inserendosi perfettamente nella melodia della band.
Il capobanda è sempre più ispirato. Canta con la voce di un ventenne, suona la chitarra con intensità, passando anche al flauto in un paio di frangenti per dedicarsi, infine, anche ad un’insolita trottolina rumorosa (come nell’introduzione di “The top”); insomma è in forma strepitosa, tanto che gli altri quattro Cure sembra che stentino addirittura a tenergli testa o stare dietro i suoi ritmi frenetici.
Lovesong” e “Kyoto song” sono momenti deliziosi di oggi, mentre il finale del main set è da urlo. “One hundred years”, “Give me it” e la già citata “The top” danno al concerto rispettivamente rock decadente, noise, per finire con la desolazione alla stato puro: “Please come back, please come back ….. all of you”.
Primary” riempie l’arena di un rock ballabile (se solo ci fosse un po’ di spazio vicino alle transenne!!), mentre “Charlotte sometimes” aggiunge quell’atmosfera in più grazie alle onnipresenti tastiere.
Dopo un rientro totalmente dedicato a “Disintegration” in cui “Pictures of you” tocca delicatamente le corde emotive degli ascoltatori, “Lullaby” anticipa un’intensa “Fascination street”, preparando l’ultimo encore di stasera.
Dressing up” (pregevole e con “The empty world una delle più apprezzate di “The top”), “The lovecats”, “Close to me”, “Why can’t I be you”, “Boys don’t cry” e la definitiva “Hey you” concludono con intensità crescente questa maratona.

Ancora tre ore di spettacolo, per una fatica ampiamente ripagata.

Il rifare sempre le stesse cose. Avere la certezza di emozioni che continuano e crescono. Avere la certezza che seguire le vicende artistiche di Robert Smith rappresenta più uno stare dietro le mosse di un grande uomo, prima ancora che di un grande musicista. Quando il terminare una trasferta come questa si traduce nel desiderio che ne arrivi presto un’altra.
Quando in realtà un concerto dei Cure non è mai solo un concerto. Quando quest’anno Natale arriva con quattro giorni di anticipo sul calendario.