Con la tappa bolognese
i Cure iniziano il mini tour italiano, proseguendo
quei concerti che, partiti dalla Scandinavia,
stanno portando entusiasmo tra vecchi e nuovi
seguaci del gruppo.
Come sappiamo la band
si presenta sul palco con un esercito composto da
ben sei elementi e viene quasi da sorridere
pensando alle mille trasformazioni avute solo
negli ultimi anni. Da quintetto con 1-2 tastiere,
siamo prima passati ad un trio, per poi tornare a
quartetto e una sola chitarra, passando per un
quintetto e due chitarre, fino al tour 2022,
ovvero alla storia recente.
Nel mentre, per non
farci mancare niente, qualche mese fa ci fu
l’abbandono di Simon Gallup, un addio durato
appena qualche giorno; insomma, non esattamente il
massimo dell’equilibrio per una band che sta per
dare alla luce il suo quattordicesimo album in
studio. Un album le cui premesse sono davvero
esaltanti se solo pensiamo alle canzoni proposte
in anteprima.
“This is the end …”
sono le prime parole estratte dall’apripista
“Alone”, accompagnate da un boato del grande
palazzetto dello sport alle porte del capoluogo
emiliano.
Un focus sui
protagonisti. Robert Smith, con passo sornione si
aggira per il palco, mostrando una sicurezza
rodata in più di quarant’anni di carriera, spinto
da una voce impermeabile al passaggio del tempo.
Simon Gallup, che non concede (mai) un sorriso,
vive lo spettacolo in maniera molto fisica; Cooper
è un martello che non perde un colpo; Gabrels
l’oggetto misterioso (mi sembra tale nonostante i
dieci anni di militanza); Roger O’Donnell, più
gioviale rispetto ad inizio tour e Bamonte che
sembra vivere il ritorno in seno al gruppo molto
in sordina, quasi fosse “quello in più”.
Oggi la Palma d’oro tra
le canzoni offerte nel mainset se l’aggiudica
“Cold”. Se quell’inno desolante, vecchio di
quarant’anni, a Stoccolma mi era parso un po’
sottotono, qui si riprende tutta la sua rivincita
per cinque minuti di una dolce e irresistibile
angoscia.
Il primo rientro è
quello capace di alzare ancora di più il livello
della serata. La nuova “I can never say goodbye”,
interpretata con grande pathos, anticipa “Faith e
“A forest” e che queste due canzoni siano
cementate nel cuore dei sostenitori lo testimonia
il trasposto collettivo, palese sul volto di
tutti.
Ma voglio chiudere
facendo un passo indietro, quasi all’inizio del
concerto, ovvero da quella “And nothing is
forever”. Il nuovo brano, dolce fin da quei tocchi
sui tasti con cui si apre il pezzo, ridefinisce e
aggiorna non solo il sound ma anche la poesia. “E
lo so, lo so, il mio mondo è invecchiato, ma
davvero non importa se dici che staremo insieme,
se prometti che alla fine sarai con me. Promettimi
che alla fine sarai con me”.
Perché in un concerto
ci sono tante di quelle cose che mi risulta
difficile contenerle, riassumerle e trattenerle in
una recensione. Alcune di esse le perdi, ti
scivolano dalle dita, mentre cerchi di catturarle
e imprigionarle nella tastiera di un pc. Adesso,
per esempio, trattengo le lacrime. Quelle buone. |
A sei anni esatti di
distanza dall’ultimo Tour Italiano, i Cure tornano
a calcare i nostri palchi partendo nuovamente da
Bologna, nella prima delle quattro date designate.
Quel che in primis
vorrei sottolineare è la mia opinione riguardo
alla Band di Robert Smith e nello specifico,
aldilà dell’importanza che il gruppo ha avuto
nello scrivere intere pagine della Storia del
Rock, di non aver mai deluso le aspettative e
puntualmente, nella serata in questione, non vengo
smentito.
I Cure sono
“fottutamente” in forma, il tempo per loro sembra
essersi fermato alle meravigliose Gig’ degli
indimenticati ed indimenticabili Eighties e poi
quest’anno c’è da festeggiare due importanti
Anniversari discografici per gli album
“Pornography” e “Wish” che spengono
rispettivamente 40 e 30 Candeline (Smith dopo aver
eseguito “The Hanging Garden” ha volutamente
ricordato il Compleanno di una delle Pietre
Miliari della corrente Dark-Wave). Si comincia
con il nuovo singolo “Alone” per proseguire con
“Pictures Of You”, “A Night Like This”, “Lovesong”
ma è la parte centrale del primo set, tra
imponenti ritmiche/interpretazioni
ispirate/armoniose sferzate chitarristiche ed il
fluire delle tastiere, a regalare i momenti più
suggestivi e passionalmente viscerali con “At
Night”, “A Strange Day”, “Play For Today”,
“Primary”e la dovuta “Burn”, classico tema per
Halloween. Però quello che accade nell’Encore 1,
dopo il primo congedo dei Six Imaginary Boys,
raggiunge livelli di celebrazione che raramente ho
percepito in quasi quarant’anni di concerti; “I
Can Never Say Goodbye” elabora nelle emozionanti
liriche gli eventi luttuosi del frontman ma l’aver
eseguito “Faith”, brano Capolavoro
dell’altrettanto disco Capolavoro del 1981, è
memorabile, anzi, e lo scrivo con pretenziosità
arrogante, MONUMENTALE. L’Encore 2 è un atto
d’amore dovuto ai ventimila presenti
all’UnipolArena che fin dalle prime ore del
pomeriggio avevano occupato gli spazi disponibili
e non; “Lullaby”, “The Walk”, “Friday I’m in
Love”, “Close To Me”, “In Between Days”, “Just
Like Heaven” e la conclusiva “Boys Don’t Cry”
chiudono il ‘Concerto’ conservando intatte il
carisma da “hits”ed un commosso Robert Smith
ringrazia, stringendosi le braccia con le sue
inconfondibili movenze, salutando con un “See You
Again!!”. Un arrivederci che a questo punto sa di
preludio alla pubblicazione del nuovo quanto
atteso quattordicesimo lavoro in studio che
dovrebbe intitolarsi, stando ai rumors, “Songs Of
the Lost World”. E tornando a casa, avvolto nei
bagliori della notte e delle luci della
Bologna-Milano, continuavo a pensare e ripensare
ai momenti legati alla loro musica, giorni
gloriosi, e di quanto goduto fino a qualche attimo
prima; un piacere personale così malinconicamente
diviso tra gioia e sofferenza, quasi brumoso, ma
del quale continuo ad esserne profondamente
innamorato.
Chapeau
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