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The CURE
live @ St. Jakobshalle   – Basilea, 19 novembre 2022

testo e foto di Gianmario Mattacheo

Per il secondo concerto svizzero di questo tour 2022, i Cure raggiungono Basilea, mentre i numeri alla mano ci dicono che abbiamo passato la metà di quel lungo cammino atto a portarci alla Wembley Arena di Londra, luogo in cui le fatiche saranno terminate.

L’organizzazione svizzera è sempre impeccabile; quando vieni a vedere un concerto qui, sai benissimo che nulla è fuori posto e che funzionerà tutto alla perfezione (comprese le Rikola omaggiate all’entrata).

I Twilight Sad sono ormai una certezza, ricevendo durante quell’ora scarsa di esibizione, sinceri applausi e gradimento. Il frontman James Graham presentandosi con una salopette blu sembra voglia lanciare un messaggio a gruppi infiocchettati e un po’ fighetti, magari strizzando l’occhio a chi si fa il mazzo tutti i giorni, ponendosi un po’ come una sorta di working class hero. Una nota a margine della loro esibizione ci conferma la grandezza di Robert Smith. Il leader dei Cure, infatti, invece di starsene comodamente in camerino, ascolta per intero il set degli scozzesi, testimoniando la sua insanabile fame di musica, unita ad una non comune umiltà.

Alle 20,15 è Jason Cooper a prendersi i primi applausi della band, mentre in fila indiana tutti gli altri Cure, in religiosa tenuta nera, sono pronti ad aprire le danze.
Lo sappiamo è “Alone” ad iniziare il concerto, brano veramente degno per un’introduzione in grande stile, così efficace da non far troppo rimpiangere “Plainsong”, poi il maxischermo proietta la copertina di “Pictures of you” con l’immagine di Mary che sembra guardare il marito dall’alto, durante l’esecuzione di uno dei pezzi migliori di tutta la discografia.
Porta commozione autentica “And nothing is forever”. Da quando l’ascoltai a Stoccolma in anteprima assoluta me ne sono innamorato, per la musica certamente … ma quelle parole che sembrano scritte per dire ciò che sentiamo nel profondo, beh, si sono incollate a me e da lì non si vogliono più staccare.
“Push”, invece, è del set principale la canzone che vuole un po’ spezzare il clima intenso (diremmo quasi teso) caratterizzante i concerti di quest’anno; con la partecipazione corale e gli inevitabili sorrisi che arrivano dal palco, diventa una tipica rock song da grande arena.
Mentre ascoltiamo “The hanging garden”, oggi tra le più brillanti ed emotivamente coinvolgenti, ci rendiamo conto, una volta di più, di quanto il contributo di altri musicisti, nell’ormai consueto rimpasto della formazione, sia poco più che rilevante. La firma del brano è sempre data da Robert Smith, sicuramente con la voce, ma prima ancora che il cantato arrivi, è la sua sei corde ad indicarci che siamo di fronte a un pezzo dei Cure: possiamo avere una, due o tre chitarre, ma sarà la sua a rendere autentico il prodotto.

Il main set si chiude con “From the edge of the deep green sea” e con la nuova “Endsong”, in due brani in cui non si lesina in chitarrismi di ogni genere. Ma se l’estratto di “Wish” si apprezza per i notevoli cambi di ritmo e quel rintocco di O’Donnell, tanto semplice quanto fondamentale per la riuscita del pezzo, con “Endsong” il capobanda ci fa immergere nella più desolata rappresentazione del presente: “Rimasto solo senza niente, alla fine di ogni canzone. Rimasto solo senza niente, niente, niente”.

Il primo rientro ha una potenza da stendere sul colpo un elefante; si parte con “I can never say goodbye”, mentre lo schermo riporta immagini di giostre che, all’imbrunire di giornate autunnali, accompagnano le dolenti parole dedicate al fratello scomparso. Poi seguono “Faith”, “One hundred years” ed “A forest”, con i quali i Cure fanno cappotto.
Oggi il rientro pop si veste, ancor più, di festa, sorrisi e scherzi. Dapprima Robert si posiziona  alle tastiere, facendo finta di strimpellare qualcosa e lasciando un tramortito O’Donnell al microfono; poi, essendo oggi sabato,  dice che presenterà una nuova canzone, dal titolo “Saturday wait”, mentre, ovviamente, la sua chitarra parte con l’intro di “Friday I’m in love”!.
Non sono pochi quelli che chiedono il perché si torna a vedere più volte lo stesso concerto. Quando ti trovi a perdere quasi tutti i filtri e commuoverti durante l’esecuzione di alcuni brani e, poi, dimenticarti di essere in un’arena ed osservarti, qualche minuto dopo, intento a
 ridere e ballare come se fossi tranquillamente a casa, allora capisci realmente come non ci possa essere una risposta al quesito, Prendo in prestito le parole di un mio amico, quando un giorno mi disse: “When you go black, you never come back”. E noi, in effetti, quel nero lo abbiamo scelto molto tempo fa, non riuscendone più a fare a meno.