The
CURE
@ PALALOTTOMATICA - ROMA 30 ottobre 2016
Testo
e foto di Gianmario Mattacheo
Per
i principali artisti, non può certo mancare una data romana ai rispettivi
tour. A questa regola non si sottraggono certo i Cure di Robert
Smith, ancora presenti presso il palazzetto più importante della
capitale.
Se la memoria non perde troppi colpi, nello stesso posto e per la
stessa causa, la band si ritrovò a suonare otto anni fa, durante
un faticoso tour che anticipava l'album in uscita. Di nuovo qui,
dunque, per un tour nei palazzetti, secondo il più classico degli
schemi: disco e promozione dello stesso. L'unica grande(issima)
eccezione è che i Cure proprio non sono pronti a partorire il successore
di "4.13 dream". Insomma quello che da almeno cinque anni deve essere
il nuovo lavoro di inediti, pare sempre più come la terra promessa:
arriverà, ma non sappiamo quando il grande capo si decida a mettere
nero su bianco le mille idee che sicuramente gireranno all'interno
della sua mente creativa. Un concerto è fatto di emozioni. Sono
queste le uniche ragioni che giustificano tante (apparentemente)
assurde fatiche ed attese. E, se è vero quanto detto sopra, proviamo
a giocarcela sul piano emotivo. L'inizio dello spettacolo è, certamente,
il momento più alto, sul versante emozionale.
Ecco allora che può comprendere queste parole solo chi ha preso
parte ad un concerto. Il buio che anticipa l'ingresso degli artisti
e l'entrata in scena degli stessi sono quasi sempre gli elementi
che ripagano il prezzo del biglietto (sempre più alto, invero!).
Se poi ci si guadagna un posto vicino al palco, le emozioni diventano
davvero difficili da tradurre e pronte a diventare un mare incontrollabile
di sensazioni quando "Shake dog shake" ha il compito di scandire
le prime note del concerto. Facile immaginare una scaletta stravolta
rispetto al concerto bolognese.
Cambiano le canzoni e/o la sequenza delle stesse, anche se rimane
immutata l'energia dalla band. Il pubblico rimanda il solito affetto,
dimostrandosi particolarmente coinvolto durante "Push", "The walk",
"Inbetween days", "From the edge of the deep green sea", ovvero
canzoni che fanno ballare tutti, da chi è attaccato alle transenne,
fino a chi, più comodamente, si gode lo spettacolo seduto in cima
al Palalottomatica. Poi parte "one hundred years" e, come di botto,
ti sale quell'incontrollata voglia di buttare fuori del veleno,
perché poche canzoni hanno quell'effetto magico e liberatorio. Ed
allora ad ognuno il suo, insomma.
Dal terremoto che anche oggi ha fatto preoccupare il centro Italia,
alle piccole beghe personali presenti in ciascuna vita; piccole
o grosse che siano, sono merde. Merde che da quel suono di batteria
e da quel "It doesn't matter if we all die" provano ad assumere
un'altra dimensione ed altri significati dentro di noi. Ritornati
sul pianeta terra, siamo travolti da un TIR di nome "Give me it".
È questa la migliore esecuzione di stasera.
Chitarre robuste e acide si amalgamano alla batteria impazzita di
Jason Cooper ed al basso schizoide di Simon Gallup, per circa cinque
minuti di violenza benefica, straordinaria conclusione del set principale.
Dopo avere saccheggiato Youtube nei mesi passati, possiamo sentire
in presa diretta "It can never be the same", l'eccellente nuova
canzone proposta da qualche mese a questa parte. È un rock malinconico
e raccolto, pronto a fare breccia tra gli amanti dei Cure più riflessivi
e sofferti. Ci sembra, invece, meno incisiva "Step into the light"
(proposta nel main set), anche se un giudizio definitivo dovrebbe
essere rimandato solo dopo che il brano sarà immortalato su un disco
ufficiale. "Burn" (che accoglienza!) e il l'inno dei Cure "A forest"
chiudono questo encore.
Ancora un rientro fatto di chitarre pesanti, quando "Want", "Never
enough" e "Wrong number", lasciano spazio ai virtuosismi (il più
spesso, invero, fuori luogo) di Reeves Gabrels. Quando il concerto
volge verso il termine, la band si scioglie ulteriormente e, plasmandosi
agli umori del capo, concede più di un sorriso. Robert Smith, in
particolare, pare godersi un mondo gli ultimi encore. Entra in scena
con la solita andatura caracollante e tuttavia grintosa, facendo
smorfie e salutando qua là tra il pubblico; si percepisce quanto
sia stanco, ma è altrettanto evidente quanto sia impaziente di prolungare
gli sforzi. È in questo clima che devono essere lette "Friday I'm
in love" (forse la più festaiola di oggi), "Let's go to bed", "Close
to me" (fai che non manchi mai!), ed ovviamente "Boys don't cry".
In questi ultimi concerti abbiamo imparato a considerare "Why can't
I be you" come il brano dei saluti finali. Non ci si smentisce neppure
stasera.
Ultimo atto di un concerto … Ma si, dai. Di un concerto dei Cure.