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THE CURE

@ ROYAL ALBERT HALL, LONDRA 28 e 29 MARZO 2014.

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GIANMARIO MATTACHEO

28 MARZO

Ma questo racconto non lo avevamo già sentito? In parte. Solo in parte.
Il 2014 parte forte per la band di Robert Smith. Prima le voci sempre più consistenti circa l’uscita di un nuovo album in studio (quanto crederci?) e poi l’annuncio di due concerti consecutivi alla Royal Albert Hall di Londra.
Come sempre sensibili alle iniziative di beneficenza, i Cure rispondono ancora affermativamente a Teenage Cancer Trust ed in particolare a Mr Roger Daltrey, voce storica degli Who e testimonial dell’Associazione (il cui fine è quello di dare sollievo e sostegno ai bambini malati di cancro).
Terza assoluta per la band presso il teatro più bello e prestigioso di Londra. La prima fu proprio in occasione di un’edizione del Teenage Cancer Trust, mentre la seconda coincideva con il Reflection Tour, quando Smith e soci mettevano in scena i primi tre album della ditta, in quello che, molto probabilmente, si sarebbe dimostrato il più eccezionale concerto di casa Cure.
Immutato rimane l’impatto emotivo quando si entra in questo pezzo di storia londinese. Il sold out (biglietti esauriti nel giro di pochi click) crea un impareggiabile effetto scenico; immensa, raccolta ed intima allo stesso tempo, la Royal Albert Hall non ha, verosimilmente, eguali in tutto il mondo. È facile, dunque, immaginare l’emozione e l’aspettativa e se a quanto detto aggiungiamo che a suonare saranno Robert Smith e soci, sono davvero poche le parole che possiamo utilizzare in questo scontato preambolo.
Vestito nero d’ordinanza per tutta la band, quando sul fare delle 19.30 si affaccia alla platea della Royal. The Cure, cristallizzatisi nella line up apprezzata dal tour europeo del 2012: Robert Smith, Simon Gallup, Jason Cooper, Roger O’Donnell e Reeves Gabrels.
“Plainsong”, la gemma romantica di “Disintegration”, ha il compito anche in questa occasione di aprire lo spettacolo. Al buio, i quattro Cure sono anticipati dall’inconfondibile introduzione musicale, praticamente sommersa dal vociare sempre più forte della folla delirante.
Molto spazio viene dedicato all’album del 1989; da una veramente intensa “Prayers for rain”, passando per il delizioso viaggio di “Pictures of you”, a “Lullaby”e “Lovesong”, attraversando una coinvolgente “Fascination street” e concludendo la prima parte dello spettacolo con la maratona estenuante di “Disintegration”, brano che mette sempre a dura prova la resistenza delle corde vocali del leader. I n mezzo, veramente tanta roba (direbbe la next generation). “Doing the unstuck” è trascinante, mentre “The end of the world” è diventato un classico degli appuntamenti live e “The walk” è il fantastico connubio tra dance e rock (impossibile rimanere insensibili al ritmo del pezzo).
Quanda scatta l’ora di “Inbetween days”, la piccola arena dell’Albert Hall si scatena in balli carichi di passione. È proprio il singolo di “The head on the door” uno dei pezzi che più si giova delle ritrovate tastiere di O’Donnell; un clima più arieggiante e svolazzante che, comunque, non fa perdere l’immediatezza della melodia di questo evergreen pop.
Stessa cosa dicasi per “Friday I’m in love” in cui è davvero difficile vedere chi, all’interno dell’arena, si astiene dal cantare la bomba commerciale di “Wish”.
Con “Push” assistiamo ad un coinvolgimento superiore sia da parte del pubblico, sia da parte degli artisti. La platea è intenta nel solito perenne movimento atto a guadagnare pochi centimetri verso il palco, come se fosse possibile raggiungere la sei corde di Smith od aggiungere ancor più sentimento al momento live.
“One hendred years” porta alla Royal Albert Hall quel clima così deliziosamente angosciante, tale da far considerare il brano d’apertura di “Pornography” come uno degli episodi live più aspettato.
Quasi a dimenticarsi lo spettacolo di domani, la band non gioca al risparmio, incalzando un brano dietro l’altro; è alta ancora l’intensità dei brani tratti da “Seventeen seconds”, e con “If only tonight we could sleep” si raggiunge uno dei vertici assoluti di questo concerto.
Quando osserviamo Jason Cooper prendere le pagliette, capiamo che è il momento jazz della serata ed allora la Royal Albert Hall può cantare in coro “The lovecats” in una festa generale. Clima che continua con tutto l’encore pop, in cui “Catch” (Robert si diverte mimando una presa area), “Let’s go to bed”, “Freakshow” e “Close to me” si fanno apprezzare al meglio.
Il solito concerto fiume pare che non voglia proprio finire, mentre il gruppo sforna canzoni a ripetizione. Osserviamo Smith e Gallup incrociare i rispettivi sguardi, quando la fatica inizia a farsi sentire, ma interpretando comunque una voglia perenne di rimane sul palco. Poi, l’atteso gran finale punk in cui il primo singolo del gruppo mette il sigillo a questa follia durata più di tre ore e mezzo.
Rimanere in pista, dunque, cercando di cogliere l’unicità di ogni singolo momento, assaporando l’energia che si respira in questo teatro e che il popolo dei Cure non fa mai mancare (fosse anche il più becero dei palazzetti dello sport). Sì. Perché di energia, se ne è respirata tanta anche stasera.
Ci sono giorni in cui è proprio difficile. In quei giorni può capitare che le cose non girino nel verso giusto. Magari può anche capitare di sentirsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, mentre lo sconforto inizia ad avere la meglio su tutto il resto. Poi, come in un niente, tutto cambia. “Let’s get happy!”.

 

29 MARZO

Senza neppure un giorno di riposo, i Cure bissano il concerto di ieri, proponendo un secondo evento alla Royal Albert Hall.
La forte richiesta di biglietti aveva indotto Robert Smith a fissare una data ulteriore al Teenege Cancer Trust, cogliendo un duplice obiettivo: offrire un altro show ai propri appassionati e dare, nel contempo, un notevole contributo alla lodevole associazione di beneficenza.
Un filmato commovente anticipa la band sul palco. È toccante la testimonianza dei ragazzi malati di cancro ed è sentito l’applauso del pubblico e l’augurio per quella battaglia che sicuramente vinceranno.

Anche oggi “Plainsong” ha l’onore di aprire le danze. Il pezzo di apertura per eccellenza del gruppo non può mai deludere, rappresentando la dolce introduzione di un’altra sfacchinata di musica e trasporto. E poi? Poi di tutto (beh non proprio, visto che il leader ci fa mancare da troppo tempo brani tratti da “Bloodflowers”) nel solito ripescaggio di canzoni vecchie e recenti e pezzi tirati fuori un po’ a sorpresa. È il caso, per esempio, di “Harold and Joe” (B side di “Never enough”), visita inattesa, ma la più piacevole della serata. La canzone è fantastica nel cantato basso del leader e nel ritmo leggermente danzante, mentre la bellissima “Stop dead” e “2 late” sono altre due rarità ripescate in questo 2014.
Smith sceglie anche alcuni pezzi da “Wild mood swings”, album troppo frettolosamente considerato minore. “Want”che già su disco era la migliore del lotto, è un portento dark rock che gode di un’energia particolare, mentre l’allegra “Mint car” non fa rimpiangere l’inserimento in scaletta.
Non possiamo, invero, storcere un po’ il naso considerando il ruolo di Gabrels, mai completamente amalgamato alle musiche dei Cure. Gli svolazzi gratuiti ed i virtuosismi del chitarrista appesantiscono oltre misura le canzoni che Smith scrisse tanto tempo fa. Su tutte, si può citare “A night like this” che torna ad essere se stessa solo quando l’assolo dell’ex collaboratore di David Bowie si conclude, per lasciare al leader il compito di riportare la musica nella sua melodia e natura originaria.
Una band esperta sa come tenere in piedi un live set senza perdere in coinvolgimento da parte del pubblico. Ecco, allora, che a brani di grande tenore partecipativo, si alternano pezzi decisamente più intimisti e raccolti. È il caso di “Trust”, “Jupiter crash” e soprattutto “If only tonight we could sleep”. Qui si può solo chiudere gli occhi e farsi trascinare dal momento e dalle emozioni, nell’immaginario di una band capace di parlare singolarmente ad ogni più remoto fan, sia esso attaccato alle transenne o lassù, in alto in alto dove la Circle domina la Royal Albert Hall.
Rispetto a ieri, la band appare ancor più serena. Non mancano sguardi complici tra Smith e Gallup (in particolare durante “Pictures of you”), ma anche gli altri non si fanno mancare risate e buonumore.
Uno dei momenti più apprezzati si ha quando la band esegue, una dietro l’altra, “ Shake dog shake” (perla rock decadente di “The top”), “Fascinantion street”, “Bananafishbones”, “Play for today” ed “A forest”. Pur essendo scontata la riproposizione di “A forest”, il pubblico si esalta nel pezzo simbolo del primo periodo della band. Il singolo del 1980 tocca la perfezione, riuscendo a coniugare climi oscuri, rassegnati, ma al contempo ballabili, con una performance che anche oggi non delude. Sempre nel clima del buonumore, osserviamo Smith sbirciare O’Donnell mentre esegue l’intro e, a conclusione dello stesso, sussurrare “Perfect” tra le risate di chi ha colto il momento.
“One hundred years”, invece, soffre un po’ della stanchezza di questi due giorni, apparendo leggermente sottotono e meno carica del solito. Dall’album “Pornography” risulta molto più incisiva stasera “A strange day”, complice anche il fatto di essere suonata a concerto appena iniziato, con energie ancora fresche e forze totalmente integre.
È ricordato anche l’ultimo lavoro in studio con una troppo rockettara “The hungry ghost”, una “Sleep when I’m dead” in cui la voce di Smith è particolarmente pulita ed una geniale “Freakshow” nella quale Robert si cimenta con un campanaccio, in apertura di pezzo.
Dopo l’encore pop, con il definitivo rientro punk il gruppo fa ballare tutta l’arena attraverso il classico “Boys don’t cry”, fa pogare i più scalmanati con “10.15 Saturday night” e fa arrivare all’esaltazione pura con quel capolavoro di “Killing an arab”.
Termina con il singolo del 1978 questa trasferta indimenticabile, caratterizzata da due spettacoli intensi in una location unica. Quasi imbarazzato, esausto, ma palesemente felice, Robert Smith (o ciò che resta di lui dopo circa sette ore di concerto in due giorni!) caracolla verso il microfono per dare ancora un saluto agli (altrettanto stanchi) sostenitori: “See you again!”.
Si tira il fiato e i polmoni recuperano aria, quasi a riprendersi da una lunga e faticosa apnea. Una solita occhiata nostalgica a ciò che c’è intorno ed al palco divenuto ormai vuoto, insieme ad un senso di beata stanchezza che ci avvolge piano piano e senza fretta. Si vive solo di emozioni e per le emozioni. Qualcuno ha avuto in dono la capacità di regalarle in modo così chiaro ed intenso. È questo il motivo che ci porta a ritornare a rifare le stesse cose ……., ancora ed ancora ed ancora ed ancora.