Rivista e Web-zine di musica, cultura, arte e tutto l'universo oscuro

the CURE

@ PALAIS OMNISPORT PARIS BERCY. 12 MARZO 2008

testo GIANMARIO

foto by Silvia

 

Iniziamo dal principio (tanto per non sbagliare).
Parigi è la città preferita da un certo Robert Smith. Tale Robert Smith è il leader della band the Cure. Tale cantante e chitarrista è considerato alla stregua di un messia dal popolo di fan(atici) che lo segue con passione da moltissimi anni. Poche e sintetiche premesse per dire che, all’interno di un tour, la data fissata a Parigi è assolutamente irrinunciabile per ogni amante della band inglese. Per questo 4tour 2008 l’arena scelta nella capitale francese è il Palais Omnisport di Bercy. Andando a ritroso nel tempo, possiamo vedere che le locations sono cambiate diverse volte, all’interno di questa affascinante città. Siamo passati dalla celebre Olympia (e chi possiede il bellissimo bootleg del Fourteen Explicit Moments Tour, apprezza la strepitosa performance della band), dallo Zenith (omaggiato dal live ufficiale “Paris”), e oggi il Palais Omnisport di Bercy. Il Palais Omnisport non è, in realtà, un’arena storica. Inaugurata solo nel 1984, si pregia per aver ospitato artisti di notevole spessore e, stando a quanto abbiamo letto, pare che abbia una buona resa acustica. Speriamo bene.
Una nota di colore. Per due date consecutive, i Tokio Hotel hanno suonato nello stesso palazzetto di Parigi. Risultato? Nelle serate del 9 e 10 marzo le vie parigine e, soprattutto, quelle adiacenti al Palais Omnisport sono state invase da ragazzine (e, in alcuni casi, dai genitori al seguito) che inneggiavano al gruppetto crucco. Fa sorridere pensare che, solo qualche ora più tardi, ai teenager dei Tokio Hotel si sarebbero sostituiti i più attempati sostenitori dei Cure!
Possiamo immediatamente constatare che il palazzetto di Parigi risulta essere ottimamente organizzato e gradevole d’aspetto. Completamente ricoperto d’erba, tagliata e curata, appare come qualcosa di più rispetto alle solite quattro mura in cui normalmente si spazia dagli avvenimenti sportivi agli eventi musicali (il più delle volte con risultati sonori pessimi).
Alle 18.oo vengono aperte le porte e parte la rincorsa per i posti migliori. In principio, tuttavia, gli spazi vuoti sono moltissimi, tanto che pensiamo che l’annunciato sold out sia stata una bufala (pensiero del tutto sbagliato, in quanto successivamente il POPB si sarebbe riempito fino all’inverosimile).
Come consuetudine, per questo 4tour 2008 i 65 Days of Static sono il guest che viene annunciato da tempo sul biglietto. Ancora una volta, la loro esibizione viene accolta con entusiasmo dal pubblico dei Cure, che riconosce alla band di Sheffield qualità e spessore. Per qualsiasi gruppo trovare consensi quando non si è l’attrazione principale della serata non è certo cosa facile. Possiamo dire che i 65 Days of Static abbiano vinto questa sfida in tutte le città toccate dal tour europeo; e questo non è certo poco!
Alle 20.15, però, si inizia a fare sul serio. In fila, uno dietro l’altro, i Cure entrano sul palco. “Plainsong” è il brano che ha l’onere di aprire il concerto e scuotere il POPB. Rispetto al passato, Robert Smith suona la chitarra anche in questo brano (per supplire alla mancanza delle tastiere, non più presenti nell’organico della band); questo gli impedisce di cimentarsi nella passerella che era solito compiere per i fans, ma la delicatezza della canzone e l’importanza del momento rendono i circa sei minuti di apertura uno degli episodi più alti di un loro concerto. Si rimane a livelli altissimi con “Prayers for rain” e “A strange day”. L’urlo dilatato del leader durante il brano del 1989 è davvero travolgente, mentre la malinconica suggestione creata da “A strange day” lascia quasi senza fiato. Nella prima parte del concerto è piacevolissimo riascoltare “To wish impossible things” (sognante) e “Pictures of you” (malinconica e dolce), ma anche “Kyoto song” con le sue particolarissime trame sonore.
Con la quattordicesima canzone fanno un regalo a Prigi. “How beautiful you are”, il cui testo si ispira alle liriche di Charles Baudelaire, viene cantata con passione da Robert Smith, mentre lo schermo posto dietro i musicisti proietta la caratteristica immagine di Notre-Dame. Intanto, mentre si susseguono le canzoni (e si conferma l’ottima acustica dell’impianto), sono a decine i ragazzi che chiedono di poter uscire dalla mischia a causa del caldo che nell’affascinante palazzetto di Bercy è davvero insostenibile. A peggiorare la situazione ci si mette anche Robert Smith che snocciola, una dietro l’altra, perle pop di presa immediata: “The walk”, “Friday I’m in love”, “Inbetween days”, “Just like heaven” e “Primary” fanno alzare ancor di più la temperatura del gremitissimo POPB. È piacevole osservare ciò che accade dietro i musicisti: brano dopo brano, si alternano sullo schermo immagini coinvolgenti e suggestive. Quando la band esegue canzoni che in passato furono singoli, possiamo osservare grandi copertine ingrandite degli stessi, mentre per le altre canzoni si alternano istantanee che interpretano al meglio quanto espresso dai quattro.
Rispetto alle precedenti date, cerchiamo di concentrarci un po’ di più su Simon Gallup e Porl Thompson durante l’esecuzione di “Never enough”. E, ……. Eh sì. Anche qui tra i due amici scocca il bacio (stile “Show” 1993) che ci conferma il perfetto clima che si respira sul palco e l’armonia tra i membri della band. “One hundred years” è sempre travolgente con quella musica così emotivamente ineguagliabile e quelle parole così profonde (“We die one after the other, after the other”) che vengono cantate in coro insieme al sig. Cure: difficile pensare ad un loro concerto senza il brano apripista di “Pornography”.
Dopo la pausa si attende il set di canzoni di “Seventeen seconds”. “At night” è deliziosa; “M” (sullo sfondo lettera che riporta il titolo del brano) ha un grroove irresistibile; in “Play for today” tutti i sostenitori cantano in coro simulando ciò che un tempo veniva suonato con le tastiere; “A forest”, invece, è il pezzo che più di tutti rappresenta la band in musica. Lo sfondo ripropone la copertina del brillante singolo del 1980, ma quando la canzone volge verso il termine, gli alberi sullo schermo iniziano a ruotare, dandoci ancor di più quel senso di smarrimento cantato così tante volte da Robert Smith: “I’m lost in a forest all alone ……. Again and again and again”. Il secondo rientro è, per contro, quello festaiolo. “The lovecats”, “Let’s go to bed”, “Why can’t I be you”, “Close to me” e la nuova “Freak show” fanno gioire un po’ tutti e l’entusiasmo manifestato dai fans ruba diversi sorrisi ad un sereno Robert.
Il rientro punk viene, rispetto alle altre date, ancor più dilatato. Ecco che, tutte insieme, trovano spazio "Three imaginary boys”, “Fire in Cairo”, “Boys don't cry”, “Jumping someone else's Train”, “Grinding halt”, “10:15 Saturday night” e l’impetuosa “Killing an arab”. Fino ad oggi, questo 4tour ci ha detto che le ultime urlate parole di “Killing an arab” chiudono alla grande lo spettacolo: ma Smith vuole lasciare a Parigi un ricordo indelebile, un concerto senza confronti. Le luci non si accendono, nonostante siano quasi passate tre ore e mezzo dall’inizio dello spettacolo. Dal backstage si intravedono i quattro tornare sul palco e lo sfondo inizia a proiettare una suggestiva foto che ripropone l’interno di una chiesa. Beh, gli elementi ci sono proprio tutti e possiamo apprezzare (goderci) “Faith”, ovvero la migliore conclusione per loro concerto. “With nothing left …. but faith” sono parole ripetute da tutti, in coro e con passione. Si conclude l’ultima nota e non rimangono che gli applausi. Qualcuno ride, qualcuno è commosso, qualcuno ha semplicemente le mani nei capelli quando guarda l’orologio (ben oltre le tre ore e mezzo di spettacolo); sembra un errore o uno scherzo, ma non è così. Probabilmente quando guarderemo il futuro dvd ufficiale che celebrerà l’evento, ce ne faremo una ragione, ma oggi siamo troppi stanchi e felici per darci altre risposte. Semplicemente ce ne andiamo via. Ce ne andiamo “With nothing left …. But faith”.