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the CURE

Le Dome, Marsiglia, 4 marzo 2008

 

testo GIANMARIO da Alessandria

foto by Matteo e Nicola

Primo appuntamento di questo 4tour 2008 in terra francese. Da Milano, la carovana dei cure si sposta verso la calda Marsiglia; ha inizio un altro giorno di viaggio e di concerto.
La Francia ha da sempre amato i cure, e la band ed il suo leader Robert Smith hanno suonato nelle maniere più ispirate ogniqualvolta si sono trovati ad interpretare il proprio repertorio di fronte ai transalpini.
Proprio Marsiglia è stata una delle primissime città scelte (in settembre) quali mete per l’attuale tour, facendo coppia con la capitale Parigi, il cui concerto in quella sede proprio non poteva essere evitato.
Ma quella sarà un’altra storia che affronteremo solo successivamente.
Eh già! perché ogni concerto dei cure ha la caratteristica di fare storia a sé. Sì, certo, nello stesso tour troveremo più di un elemento comune a tutti gli show: una scaletta più o meno simile (cioè …… non del tutto coincidente, come avviene, invece, per moltissimi altri artisti), il carisma e la personalità del leader, gli applausi ed i rientri in scena, elementi che, insomma, non possono non essere presenti quando si assiste alla performance dello stesso gruppo, a distanza di pochi giorni.
Tuttavia, ogni singolo concerto conserva una storia particolare che rende lo spettacolo diverso da qualsiasi altro. Questo è frutto dell’energia che si respira on stage, dall’entusiasmo dei fans e, per contro, dalla risposta entusiastica dei musicisti che affrontano ogni data del tour come se la stessa fosse la più importante esibizione dell’intero anno. Esiste, realmente, un rapporto unico e particolare tra Robert Smith ed il suo pubblico.
La struttura “Le Dome” si presenta con un grosso cupolone (sullo stile del Palatrussardi, ma più ampio) e anch’esso ha fama di vantare una discreta acustica durante i concerti musicali.
Raggiungiamo la struttura e riusciamo ad entrare intorno alle 18.00, accalcandoci in prossimità delle transenne, vicino ai “cugini” francesi.
Poco prima dell’esibizione dei 65 Days Of Static si crea il panico in una zona del parterre: lo stomaco di un ragazzo (che ha ingurgitato un po’ troppa birra) dà il meglio di sé creando un mezzo disastro e, conseguentemente, uno spazio notevole si apre proprio nella posizione della platea che sarà centrale rispetto al microfono di Robert Smith!
Entrano i 65 Days Of Static per la loro mezz’ora di post rock violento e sanguigno. Il loro spettacolo è, ancora una volta, gradito e, probabilmente, è applaudito ancor di più rispetto ai concerti di Milano e di Roma.
Ma, torniamo a noi. Alle 20.00 scatta l’ora dei cure. Le luci spente ed il rumorio sempre più forte del pubblico danno il via per l’intro e lo scampanellio che preannuncia “Plainsong” e per un’altra maratona in compagnia di Robert Smith e compagni.
La prima parte dello spettacolo ci regala diverse canzoni di “Disintegration”: “Prayers for rain”, “Lovesong”, “Pictures of you”, “Lullaby”. Inutile dire che la risposta dei fans, di fronte all’album del 1989, è assolutamente entusiastica (in chiusura del set di canzoni principali, ci sarà anche lo spazio per il brano che diede il titolo a quel fantastico Lp).
“Please project” è, invece, una pop song che sarà contenuta nel prossimo lavoro in studio degli inglesi; il brano appare, ascolto dopo ascolto, sempre migliore ed il pubblico inizia ad apprezzarne meglio l’esecuzione.
“From the Edge of the Deep Green Sea” e “Push” sono rock songs che non mancano mai, mentre “The blood” è eseguita con sorpresa dai nostri. Infatti risulta essere meno acustica rispetto alla versione tradizionale (Porl Thompson, infatti, continua ad imbracciare la sua chitarra elettrica), risultando una delle migliori dell’intera serata.
“Never enough”, “Wrong number”, “One hundred years” (oggi eseguita in maniera un po’ più lenta) e la già citata “Disintegration” chiudono la porzione centrale dello spettacolo.
Nota al concerto: due amici (gli autori delle foto) mi informano che, mentre la maggior parte del pubblico era intento ad osservare Robert Smith (ed io con loro), Porl Thompson e Simon Gallup si sono avvicinati e baciati, alla stessa maniera di “Show” (la vhs uscita nel 1993). Testimonianza ulteriore che questi straordinari musicisti si divertono ancora moltissimo, continuando ad emozionare il pubblico, ma conservando un’intatta voglia di scherzare e fare bisboccia.
Pochi minuti di tregua e si apre lo spazio per il consueto rientro di “Seventeen seconds”, e qui la nota straordinaria è rappresentata da “A forest”. Robert si avvicina a Porl per eseguire l’intro della più celebre canzone cure, ma si avvicina un pò troppo, sempre di più, sempre di più, fino a mordergli il collo; Porl reagisce alla medesima maniera (tutto questo mentre le note della canzone stanno riempiendo Le Dome). I due sorridono per il gioco improvvisato, mentre noi non possiamo far altro che goderci la scena, ringraziandoli per l’intesa che sanno creare.
Il secondo rientro è per le pop songs, in cui “Lovecats” e “Let's go to bed” sono padrone assolute (ed una ripescata “Close to me” viene eseguita con l’aiuto di una base), mentre l’ultimo bis è dedicato al passato primitivo del repertorio cure (chiuderà una travolgente “Killing an arab”).
Tutto perfetto, insomma. Tutto come deve essere un concerto cure. Appena il tempo per metabolizzare le emozioni odierne che già siamo chiamati alla prossima avventura; un altro viaggio e un’altra sfacchinata da affrontare, con la certezza che, comunque, non sarà mai abbastanza. “Never enough”, appunto!
Prima di allora, però, ci mancano ancora una decina di ore di viaggio in treno ed una notte da passare nella gelidissima Marsiglia. Quando il freddo ci attanaglia e rischia di avere la meglio su di noi e l’ottimismo lascia il posto al pessimismo, ci tornano alla mente le liriche di “One hundred years” ( ….. “non importa se moriamo tutti”); ………. ma come un miraggio spunta un treno (“Another journey by train”, appunto) ed allora riacquistiamo le forze necessarie per tornare a casa.