the
CURE
Roma,
29 Febbraio 2008, Palalottomatica
Milano 2 marzo 2008, Palasharp
testo
e foto by GIANMARIO
da Alessandria
Roma,
29 Febbraio 2008, Palalottomatica
29
febbraio. È già una data particolare quella che segna
il ritorno in Italia dei cure di Robert Smith, il cui
ultimo concerto nel Bel Paese risale al 20 agosto 2005.
In quella occasione, i fortunati possessori del biglietto
poterono assistere ad uno dei più incredibili spettacoli
posti in essere dalla band inglese, che, in quel european
tour, sperimentò la formazione a quattro. La medesima
formazione (Robert Smith – voce e chitarre; Simon Gallup
– bassi; Porl Thompson – chitarre; Jason Cooper – batteria)
si ripresenta a Roma per la dodicesima tappa di un estenuante
4tour che vede il gruppo impegnato in Europa e, successivamente,
in America.
Snervante è stata l’attesa che ha portato i fans al Palalottomatica
di Roma. Sono passati, infatti, quasi due anni dall’ultima
esibizione on stage (almeno per chi scrive); periodo di
tempo decisamente troppo lungo che equivale ad un’astinenza
non certo facile.
Durante questo lasso di tempo, i nostri non sono stati
certo a dormire sugli allori, partecipando alle consuete
collaborazioni con altri artisti (da citare per esempio
la comparsata all’unplugged dei korn, durante il quale
le due band realizzarono “in between days/make me bad”),
ma soprattutto preparando il nuovo disco in studio, successore
di quel “The cure”, primo album pubblicato per l’etichetta
Geffen.
Sicuramente la serata odierna sarà utilizzata da Robert
& co. per sperimentare alcuni dei nuovi brani e saggiare
la reazione del pubblico che attende, da oltre quattro
anni, la nuova registrazione.
Il Palalottomatica, già Palaeur, è il più celebre palazzetto
dello sport di Roma in cui i cure vi suonarono per l’ultima
volta nel 2000, in occasione del bellissimo Dream tour,
atto a promuovere “Bloodflowers", eccellente lavoro che
chiudeva la collaborazione con la storica etichetta Fiction.
È in questo affascinante palazzetto, costruito in occasione
dei Giochi Olimpici del 1960, che ci mettiamo in coda
per il fatidico inizio dello spettacolo.
Comodamente (quasi) seduti per terra, in attesa di poter
far sfogare le nostre stonate voci, apprezziamo il gruppo
spalla, scelto per ciascuna data del tour 2008.
I 65 days of static fanno il loro ingresso alle 19.30
in punto e realizzano una performance di post rock sicuramente
dignitosa. Il loro post rock, in effetti, non è molto
distante da quello dei più conosciuti mogwai, gruppo iper
omaggiato e pubblicizzato dallo stesso Robert Smith. Circa
mezz’ora di spettacolo per la band di Sheffield che offre
un aperitivo dalle tonalità forti, ma anche melodiche,
in cui lo strumento voce è praticamente assente.
Ma questo è già storia e, francamente, non è poi così
importante. Intanto, mentre l’ora si avvicina, cresce
la tensione che lascia il posto ad un vociare sempre più
intenso, pronto a trasformarsi in bolgia quando il signor
cure fa l’ingresso sul palco.
È un fracasso generale quello prodotto dai fans dei cure;
un frastuono talmente grande che cerca di competere con
i decibel che la band produrrà durante lo spettacolo.
Si cerca lo sguardo del signore in nero e si osservano
con attenzione gli attimi che precedono le prime note.
È, come sempre, l’inizio dello spettacolo che rappresenta
il momento emotivamente più alto di ogni concerto. “I
think it’s dark ..” sono le prime parole di “Plainsong”,
brano dal fascino irresistibile che viene scelto per aprire
il concerto; è il migliore degli inizi che ci potevamo
attendere ed il boato tributato alla band ne è l’ovvia
testimonianza. Robert Smith ripesca, per la seconda e
terza traccia, “prayers for rain” e “A strange day”, ovvero
due gemme dark degli anni ’80.
L’acustica, purtroppo, non è certo buona e riusciamo a
far finta di nulla, grazie all’enorme classe del leader
che appare oggi particolarmente gioviale e pronto alla
battuta (oltre a cimentarsi in un coraggioso GRAZIE).
Forse è anche per questo che la scaletta è maggiormente
orientata su un repertorio pop. Ecco, allora, che (già
nella prima parte dello spettacolo) si sussseguono “Alt.end”,
“The end of the world”, “The walk” e “Friday I’m in love”.
L’entusiasmo più alto è raggiunto proprio con quest’ultimo
brano (oggi, in fin dei conti, è venerdì): tutti accompagnano
Robert Smith che, di rimando, sorride al suo pubblico,
trasformatosi cantante. L’inferno scatenato al Palalottomatica
non tende a diminuire con altre storiche pop songs: “Lullaby”
(non la migliore esecuzione della serata), la delicatezza
di “Pictures of you” e “Lovesong” rappresentano un’altra
occasione per continuare la festa.
È, come di consueto, molto alta la partecipazione in “Push”
(Robert sorride nuovamente) quando il pubblico intona
il coro da stadio. Sono, invece, piacevoli “ripescaggi”
“To wish impossible things”, “Primay” e il rock distorto
di “Wrong number”, mentre è davvero deliziosa e toccante
“A boy I never knew”, un brano inedito del futuro album.
Infine, con “100 years” e “Disintegration” si chiude (con
la magia e la rabbia cure), la prima parte dello show.
Ci piace notare il gesto di Porl Thompson che abbraccia
Robert Smith, mentre i due stanno entrando nel camerino.
È il gesto di grandi artisti e amici che trovano ancora
piacere nel suonare insieme tutte le sere; un gesto che,
notato di sfuggita, non può che farci gioire.
Poche sorprese per il primo rientro, durante il quale
i cure eseguono solo canzoni tratte da “Seventeen seconds”.
È graditissimo l’intro di “A forest” che, per l’occasione,
viene anticipato dal refrain di “In your house”. Il secondo
rientro, invece, è tutto dedicato alle canzoni più scanzonate
della banda Smith. Accanto alle previste “Why can’t I
be you” e “Hot hot hot”, è semplicemente incredibile riascoltare
“Close to me” e “The lovecats”: ogni fan al Palalottomatica
sta sorridendo.
L’ultimo rientro è per il 1979 e per il punk. “Boys don't
cry”, “Jumping someone else's train, “Grinding halt”,
“10:15 saturday night” e “Killing an arab” prosciugano
le ultime forze dei cure e dei sostenitori. Dopo tre ore
di spettacolo, si riaccendono le luci e ci si prepara
per il prossimo concerto. Ma quello sarà un altro episodio.
Per questa sera ci aspetta il duro compito di assimilare
e digerire le emozioni che i ragazzi immaginari ci hanno
ancora regalato. È uno sporco lavoro, ma qualcuno lo deve
pur fare.
Milano
2 marzo 2008, Palasharp
Secondo
appuntamento in Italia per i cure di Mr Smith che, dopo
aver regalato forti emozioni nella capitale, si apprestano
a bissare lo show al Palasharp di Milano. Il 4tour si
presenta un po’ come l’apripista del nuovo album in studio
(la cui uscita è stata, come nelle consuetudini cure,
posticipata diverse volte), ma anche l’occasione per mettere
mano all’ineguagliabile repertorio e, conseguentemente,
far scatenare i numerosi fans giunti da tutta Italia.
Il palazzetto dello sport di Lampugnano, oggi conosciuto
come Palasharp, non è altro che il celebre PalaTrussardi
(costruito in emergenza ed in pochi mesi nel 1985) ed
è lo stesso che, nel corso degli anni, è stato battezzato
dapprima PalaVobis e, successivamente, Mazda Palace. In
coda ai cancelli fin dalla mattina, i fedelissimi provano
a far passare il tempo fantasticando sulla scaletta che
gli uomini in nero proporranno, immaginando scenari anche
diversi da quelli del Palalottomatica.
Due giorni fa apri "Plainsong" ed oggi siamo pronti a
verificare se la band ha avuto il tempo di "giocare" un
po’ sulla tracklist, regalando (cosa piuttosto frequente)
alcune sorprese. Un altro passatempo tra i fans (almeno
nel 2008) è quello di scommettere sul colore dei capelli
di Simon Gallup che per questo 4tour si è sbizzarrito
con le tinte più disparate: siamo passati da un biondo
platino delle prime date, per arrivare ad un rosso acceso
(lo stesso che portava a Roma due giorni fa); che cosa
ci riserverà oggi?
Come a Roma, anche a Milano sono i 65 DAYS OF STATIC che
hanno il gravoso compito di aprire lo show degli inglesi.
Difficile, invero, considerare il loro show con totale
obiettività. Gli intervenuti al PalaTrussardi (ah!, già
… Plalasharp) sono qui per altri motivi, perciò la loro
esecuzione è vista quasi come un prolungamento di un’attesa
già snervante. Ci piace, però, sottolineare che Robert
Smith, evidentemente mai sazio di musica, ascolta con
interesse l’esibizione del gruppo di supporto. Infatti,
lo notiamo ai piedi del palco, intento a non perdersi
neppure una nota dei 65 DAYS OF STATIC. Potrà apparire
come una sciocchezza o una nota marginale al concerto,
ma in realtà anche questo è uno splendido esempio di classe!
Il gruppo che propone un post rock violento e dinamico
conclude l’esibizione in perfetto orario, pronto per la
lasciare il campo ai tecnici dei cure. Si preparano e
si accordano gli strumenti, si sistema il microfono; insomma,
mancano solo loro. Alle 20.45 finalmente arrivano i protagonisti;
un boato accoglie l’ingresso dei quattro cure sul palco.
Robert Smith scatena le urla più forti quando si avvicina
al microfono; un occhiata al resto del gruppo e parte
lo show.
Porl Thompson, il cui rimpatrio ha dato (da tre anni a
questa parte) linfa nuova alla band, è posto alla destra
del capo, mentre Simon Gallup (oggi ha vinto chi ha puntato
sul tradizionale colore nero) è, come di consueto, alla
sua sinistra. A picchiare sui tamburi c’è Jason Cooper
che molti fans continuano a considerare "il nuovo batterista",
anche se risulta essere (ormai) il drummer di più lunga
militanza cure!
Le prime note ci dicono che è ancora la poesia di "Plainsong"
ad accendere i cuori di tutti i presenti; sognante e unica,
è la canzone che nessuno avrebbe mai potuto scrivere e,
proprio per questo, la sua esecuzione riesce sempre a
commuovere profondamente. Quando partono le note di "A
night like this", abbiamo la certezza che le sorprese
piacevoli saranno numerose.
"Pictures of you" è semplicemente deliziosa ed eseguita
ancora meglio rispetto al Palalottomatica, mentre è davvero
piacevole potere ascoltare "Catch". Il dolce brano tratto
da "Kis me kiss me kiss me" non viene, infatti, riproposto
con regolarità durante gli spettacoli e avere la fortuna
di apprezzarla oggi è un regalo estremamente gradito.
La prima parte del concerto concede ben cinque canzoni
targate "Disintegration": alle già citate "Plainsong"
e "Pictures of you", si aggiungono "Lovesong" (con un
intro molto reinterpretato), "Lullaby" e la canzone omonima
dell’album del 1989. Un’altra nota positiva risiede nell’acustica.
Se due giorni fa era pessima, oggi si presenta eccellente:
gli strumenti si distinguono perfettamente e le parole
del leader sono chiare e pulite.
Ancora sorprese (inutile dire positive) si hanno quando
i quattro cure eseguono "Kyoto song" e quando ripropongono
"Wrong number" che il pubblico milanese apprezza, partecipando
in modo particolare.
"Grazie molte" dice Robert Smith prima di congedarsi e
lasciare riposare le ugole infiammate dei suoi sostenitori.
È tempo dei bis, dapprima con i quattro pezzi di "Seventeen
seconds" (i medesimi di Roma) e poi con il pop più pop
della band (da "The lovecats" passando per "Friday I’m
in love", per arrivare a "Why can’t I be you").
È doveroso mettere in risalto che anche il servizio d’ordine
partecipa al coro dei fans. Li osserviamo svolgere il
loro lavoro con serietà, ma allo stesso tempo, li osserviamo
cantare ogni strofa delle più celebri canzoni dei cure:
notevole!
L’ultimo rientro è legato al passato più remoto dei cure:
"Boys don’t cry" scatena l’inferno accanto alle transenne,
mentre il primissimo singolo del gruppo, accelerato e
punkeggiante, chiude definitivamente lo spettacolo odierno.
Spettacolo che si è (ancora una volta) protratto per più
di tre ore e che ha confermato la grande passione che
si nasconde dietro un concerto cure. Una passione che,
seppur diversa, è vicendevole. Da un lato, infatti, c’è
quella dei musicisti che vivono con immutato entusiasmo
ogni concerto, ma dall’altro lato c’è un reale sentimento
manifestato dai sostenitori che, quasi fosse una fede
( ……… "Faith", appunto) continuano a seguire le vicende
di un gruppo assolutamente ineguagliabile.
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