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LEONARD COHEN

@ piazza San Marco, Venezia, 3 agosto 2009.

testo by Gianmario Mattacheo

 

Quando ci si appresta a vedere un concerto di un signore che ha raggiunto le settantacinque primavere, non ci si siede con la convinzione di assistere ad uno spettacolo live di grande intensità e di straordinaria lunghezza; più semplicemente, ci si muove per poter dire un giorno “Ho visto suonare Leonard Cohen”, e poco altro.
Già, perché l’artista di cui stiamo parlando è proprio uno di quei nomi che più hanno influenzato le moltissime generazioni di musicisti (tuttora presenti, o già passati), divenuti, a loro volta, icone musicali.
Cohen, come risaputo, si presenta prima come poeta che come musicista; prima come paroliere solitario che compositore od intrattenitore.
All’attivo, infatti, può vantare solo una decina di album (inclusi i live). Lavori che, comunque, hanno segnato in maniera indissolubile la storia della musica.
L’appuntamento di questa sera, per tutti questi motivi, è uno di quelli a cui non ci sentiamo di rispondere negativamente e (a dire la verità) senza troppe pretese, ci dirigiamo in una delle piazze più belle e visitate del mondo.
Piazza San Marco non ha proprio bisogno di presentazioni e neppure di essere celebrata in questa recensione. Qui possiamo solo aggiungere che la sua cornice toglie il fiato per la bellezza: il campanile di San Marco, la Basilica e gli imponenti portici sono già un ottimo regalo per chi ha deciso di passare un po’ di tempo in compagnia del cantautore canadese.
Si teme, in realtà, una serata disastrosa, se non altro per le condizioni climatiche che hanno “regalato” una pioggia piuttosto insistente per tutto il pomeriggio. Per fortuna, le precipitazioni iniziano a cessare poco prima delle 21.30, orario previsto per l’inizio dello spettacolo.
Il palco, posto esattamente di fronte alla Basilica, è pronto per l’ingresso dei musicisti che (con puntualità) entrano in fila indiana, omaggiati dall’applauso di una Piazza San Marco quasi piena.
Cohen è l’ultimo ad entrare. È elegantissimo nel suo abito scuro e nel suo cappello che toglierà solo per salutare il pubblico o per omaggiare i suoi compagni d’avventura.
La musica di Cohen non richiede musicisti virtuosi. Tuttavia tutti e nove gli strumentisti ci sembrano ottimi esecutori, perfetti nell’entrare in scena senza prevaricare l’altro e senza soffocare la voce del vecchio cantante.
Sharon Robinson è presentata da Cohen come la coautrice delle sue canzoni. La sua voce è potente e melodica, mentre incanta con i cori la platea veneziana. Javier Mas (chitarre, mandolini, liuti) viene più volte omaggiato da Leonard Cohen (che si inginocchia più volte al suo cospetto, mentre lo spagnolo esegue gli assoli).
Neil Larsen (tastiere), Bob Metzger (chitarre), Rafael Bernardo Gayol (batteria), Rosco Beck (basso), e le sorelle Webb (cori) svolgono un compito assolutamente non virtuoso, ma preciso e fondamentale.
E poi c’è soprattutto quella voce roca, bassa e leggermente malinconica.
Proprio quella voce è uno dei principali marchi di fabbrica del Cohen cantante.
Ci sono alcuni artisti con corde vocali così basse che sembra che tirino fuori la voce da chissà dove: Capitan Beefheart, Tom Waits, Nick Cave, Mark Lanegan (più recentemente), cantanti che hanno ricevuto un dono (in alcuni casi aiutato dalla troppa nicotina respirata) tale da far apparire il discorso musicale come secondario, rispetto a quello più prettamente canoro.
Tutti questi artisti, probabilmente, devono parte della loro nascita musicale a questo ebreo trapiantato in terra canadese, tanti anni fa.
E poi arrivano le canzoni. Nessun brano, tra quelli più celebri, è trascurato.
Cohen, tra un pezzo e l’altro ringrazia il pubblico e gli fa i complimenti per aver affrontato la pioggia; non manca di ringraziare i musicisti sul palco (sono almeno due le presentazioni che fa per tutta l’intera band) e compie, tra un’uscita e l’altra, alcuni balletti che ci fanno vedere un menestrello felice e sereno mentre compie allegramente il suo lavoro.
La band non si risparmia in assoli quando il vecchio cantante cita per l’ennesima volta il nome dei protagonisti (è curioso vedere Gayol che perde le bacchette proprio quando il suo assolo di batteria volge verso il termine) ed è piacevole vedere i balletti delle sorelle Webb (che Cohen definisce anche ginnaste!).
“Dance me to the end of love” e “The future” (che ci riporta alla memoria il bellissimo film di Oliver Stone “Natural born killers”) hanno l’onere di aprire la serata.
Ma poi anche “Tower of song”, “I’m your man” ed “Everybody knows”.
“Closing time” è una delle esecuzioni più toccanti, mentre “First we take Manhattan” è quella che ritma maggiormente il concerto.
“So long Marianne” è accolta da un boato e “Suzanne” è il cavallo di battaglia del canadese (inutile dire che il pubblico si esalta).
Con “Hallelujah” arriva un’altra popolarissima canzone, resa ancor più famosa dalle importanti cover (su tutte quella di Jeff Buckley).
Quando per l’ennesima volta Cohen torna sul palco, sembra voler dichiarare al pubblico la sua intenzione di continuare la festa e, proprio per questo, intona “I tried to leave you” (appunto “provai a lasciarti”) ed il pubblico sorride divertito.
Quando finalmente arriva l’ultimo saluto, tutto il pubblico è in piedi per applaudire questo 75enne che, in effetti, non ha età; semplicemente un uomo che ha saputo realizzare un concerto di quasi tre ore, tra sussurri profondi, note malinconiche ed una grande saggezza.