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CADABRA. UN BUCO NELL’UNDERGROUND
di Francesco Radicci
(EdiKit / Lilium Editions)


Non ho mai avuto il piacere di incontrare di persona il buon Francesco Radicci, che dei Cadabra è stato fondatore, batterista e per alcuni anni anche autore dei testi, ma ho seguito le vicende della sua band fin quasi dalle origini, ossia dalla fine degli anni ’90, quando si praticava ancora abitualmente lo scambio di demo-tape fra gruppi affini, e mi capito fra le mani la cassetta “Second Skin”. Poi nel 2001 l’amica Ann Beccamorti mi regalò il numero della sua fanzine Petali Viola dove era allegata la versione demo di “Sound Moquette”. Quella era ancora la fase embrionale dei Cadabra, con Francesco coadiuvato da Geppi Cuscito alla voce, chitarra e programmazioni. Dato che quest’ultimo si era già trasferito da Gioia del Colle a Milano (creando il progetto RedNeonCity e diventando successivamente bassista dei Casino Royale), per avere una vera e propria band il nostro reclutò allora il fratello di Geppi, Sebiano, alla voce e chitarra, e l’amico Vincenzo Romano al basso, dando vita così a quella formazione solida e duratura (affiancata solo per alcuni periodi da secondi chitarristi) artefice per 10 anni di un’attività di tutto rispetto nella new wave italiana del nuovo millennio, sia per i davvero numerosi concerti tenuti, sia per la pubblicazione di diversi pregevoli CD. L’ultimo “Past to Present” del 2011, una raccolta di due EP e di 4 brani remixati dall’album “Wave/Action”, conteneva pure il singolo digitale “Heart”, una canzone meravigliosa come solo i Grandi sanno scrivere, che se l’avessero incisa i Cure o i Depeche Mode sarebbe diventata un classico mondiale. Purtroppo quel CD e quel brano hanno segnato un “arrivederci”, una pausa a tempo indefinito per i Cadabra, ecco perché Francesco ha deciso di pubblicarne una biografia, scritta in prima persona in una forma romanzata davvero accattivante e coinvolgente.

Quello che mi ha colpito fin dall’inizio della loro intrigante storia è un’affinità di percorsi con quelle persone che hanno vissuto la stessa epoca e la stessa realtà, e in particolar modo proprio con il sottoscritto: Francesco comincia raccontando la formazione “dark” preadolescenziale di se stesso e dell’amico/vicino di casa Geppi, i vinili ricercati e consumati, le cassette Sony dove si duplicavano quelle prestate dai più grandi, i fratelli maggiori che già suonavano, i compagni di classe tamarri e regolari, la nascita della loro prima band – i Liquid Heads – e quindi la sala prove insonorizzata col polistirolo per disturbare il meno possibile i vicini, i primi concerti e i demo-tape con le copertine fotocopiate spediti ovunque. Insomma, basterebbe sostituire nomi e riferimenti geo-topografici per rileggere esattamente la mia storia in quello stesso periodo, fra la fine degli ’80 e l’inizio dei ’90. Ma questi sono solo gli albori, il background: i Cadabra infatti nascono nel 1998, inizialmente come progetto studio per un bisogno viscerale di Francesco dopo un lungo periodo di inattività, e se il primo album “Sound Moquette” viene inciso con Geppi, è con la formazione ufficiale Francesco/Sebiano/Vincenzo (al quale si aggiunge per un paio d’anni Maurizio alla seconda chitarra e programmazioni) che i nostri iniziano già nel 2001 a macinare un concerto dopo l’altro, girando tutto il sud Italia e con frequenti incursioni anche al centro (più tardi arriveranno anche a Genova e Milano). Francesco ce li descrive tutti, ma veramente uno per uno, con i viaggi e i simpatici retroscena annessi. Ai ricordi della vita on the road si alternano quelli in sala di registrazione e gli episodi correnti delle loro vite, quindi gli studi universitari, i lavori, le fidanzate, gli amici, i luoghi di ritrovo a Gioia del Colle, la mania per i Cure di Vincenzo (ribattezzato Vincure) e molti altri aneddoti. Il periodo più intenso per la band è stato sicuramente quello del “Blood & Blades” tour, fra il 2003 e il 2005: se quel Mini CD è considerato da loro stessi come “il nostro disco” per eccellenza, ne seguirono più di 100 concerti promozionali, spesso in festival rock all’aperto, organizzati anche in paesini sperduti del Molise e dell’Irpinia, dove quasi sempre il terzetto pugliese trovò un pubblico numeroso e una buona organizzazione. Dal 2006 in poi l’attività live si ridusse – solo quantitativamente però – ma non quella in studio, visto che uscirono l’EP “Love Boulevard” in quello stesso anno e l’album “Wave/Aktion” nel 2009. In più i Cadabra aprirono più volte per i concerti dei Diaframma, il gruppo preferito in assoluto di Radicci. Nel frattempo, molte cose stavano cambiando nel mondo dell’underground e della musica in generale, e qui viene il tasto dolente: da un lato c’è stata la diffusione di internet e dei social forum, inizialmente ottimi mezzi promozionali per la musica indipendente ma poi trasformatisi in un boomerang suicida per la vendita dei dischi, crollata in pochi anni; dall’altro la proliferazione fino alla saturazione di band, spesso tutte uguali, che ha portato ad un appiattimento del livello verso il basso (Federico Fiumani disse per l’occasione “negli anni ’80 c’erano dieci locali e dieci gruppi, adesso i locali sono diventati cento e i gruppi centomila”), al crescente disinteresse del pubblico per la musica dal vivo e al conseguente abbassamento dei cachet per i musicisti da parte dei gestori dei locali. In questo clima sempre più scoraggiante, anche i Cadabra iniziarono a interrogarsi sul loro futuro, se potesse esserci ancora qualche modo per crescere e superare i comunque buoni traguardi raggiunti, ma viste le grigie prospettive preferirono fermarsi, almeno momentaneamente, dopo l’ottimo “Heart” e tre ultime date nel 2011 per promuovere la raccolta “Past to Present”. Intanto Sebiano si era già trasferito a Roma da qualche anno, Vincenzo aveva messo su una tribute band dei Cure e alla fine del 2011 anche Francesco ha lasciato Gioia per trasferirsi definitivamente a Bruxelles.

Il primo grande pregio di questo libro è, come accennavo sopra, lo stile romanzato e scorrevole dell’autore – qui alla sua prima prova letteraria, sebbene avesse già lavorato come giornalista – in grado di rendere appassionanti anche gli episodi più ordinari e invogliare il lettore a proseguire continuamente pagina dopo pagina. Il secondo è che si racconta vita concreta, “normale” nel senso migliore del termine, nella quale molti di noi si possono riconoscere e immedesimare, senza bisogno di stupire con effetti speciali e vicende roboanti da rockstar. E così quello che magari era nato come un testo destinato solo ai fans e agli amici potrebbe diventare il libro per un ‘movimento’, per una generazione, e perché no, anche per le generazioni successive, le quali potrebbero scoprire sia un’ottima band, sia un’epoca di fatto ancora vicinissima a quella attuale, nonostante sia ormai percepita come un trapassato remoto, dove certe cose si conquistavano con la passione e l’impegno, non con un semplice click.

“Quasi ogni città aveva un substrato culturale forte, una scena riconosciuta, fatta di gruppi, fanzine, locali e luoghi di ritrovo. Un ghetto, potrebbe dire qualcuno. Magari ce lo ridessero quel ghetto. Potessimo riaverli, i tempi in cui eravamo considerati disadattati sociali da chi passava i pomeriggi impennando sui motorini”.

Da scolpire sul marmo.
(Fabio Degiorgi)