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BEACH HOUSE Testo di Gianmario Mattacheo Foto di Adriana Bellato
VISIONE I Chesseratadimmerda. Parto
con un paragone calcistico: come se Giuseppe Furino facesse finta di essere
Zinedine Zidane ed iniziasse la partita (boh, scusate oggi mi vengono metafore
sportive) con un’ora di ritardo rispetto al fischio arbitrale. VISIONE II Presso l’ex Convento
dell’Annunziata, nell’incantevole Baia del Silenzio di Sestri Levante, i Beach
House sono pronti per far ascoltare le proprie musiche e far sognare uno dei
luoghi più romantici e speciali di tutta la Liguria. Tra i gruppi più blasonati
della scena dream pop, i Beach House si sono ormai creati un nome davvero
importante nel panorama musicale indie, senza considerare che, a giudizio di
chi scrive, “Depression Cherry” va considerato il disco più bello del 2015. La loro storia nasce bene.
Niente spinte dai grandi con popolarità cresciuta attraverso la rete e,
successivamente, attraverso una serie di album impeccabili, gli americani
arrivano anche ad una raccolta di B-sides per questo 2017. Sembrano esserci tutti i
presupposti per un ottimo concerto. Purtroppo, un ritardo considerevole inizia
a togliere un po’ di quella poesia che la location ed il pensiero della loro
musica iniziavano a far entrare negli spettatori. Quando sono passate le 22.30,
una platea ormai gremita e sufficientemente spazientita, scorge l’entrata sul
palco di Victoria Legrand e Alex Scally (a cui si aggiunge un batterista); tra
fumi di scena e luci appositamente studiate per non far mai (mai) vedere i
protagonisti in volto, il sogno di “Levitation” inizia ad avvolgere la Baia. Una scelta, quel del
nascondersi, che lascia un po’ perplessi. Una sorta di gioco all’antidivo (se
fossimo all’interno di un fumetto, potremmo pensare ai Beach House come a dei
moderni Ken Parker) che è stato fatto meglio da altri in passato. I racconti mi
riportano alla memoria i Nine Inch Nails che suonarono dietro ad un tendone (ma
Reznor forse poteva permetterselo) e le esperienze personali mi riconducono ad
un imbarazzante Andrew Eldritch che si nascose, insieme a tutti i Sister of
Mercy, dietro a fumi ed ombre in uno dei peggiori concerti mai visti. “Wishes”
e “PPP” sono alcuni dei momenti più emozionanti di tutta la serata. Si
osservano le ombre sul palco e ci catapultiamo fuori dall’ex Convento, volando
e planando sopra la Baia del Silenzio in un sogno ad occhi aperti che riporta
serenità meglio che venti gocce di Xanax. La tastiera della Legrand si
muove in simbiosi con la sua voce che pare solo leggermente meno eterea
rispetto ai dischi ed un po’ più roca, mentre Scally asseconda la partner,
dividendosi tra basso e chitarra. Alcune parole tra un brano e
l’altro. La cantante ci tiene a precisare come si stia prendendo una pausa per
un drink (specifica essere del vino), conscia sicuramente del fatto che non
vediamo assolutamente nulla e, ancora, un “Siamo molto felici di essere qui”
(fondamentale, direi). In alcuni brani la Legrand
lascia la preziosa tastiera per dare maggior incisività al suono, aiutando il
collega con una seconda chitarra. È in questi frangenti che il dream pop si
indurisce per diventare quasi shoegaze e risvegliare il pubblico, ormai
piacevolmente assuefatto dalle atmosfere della band. Giusto un paio di titoli, ma solo per ribadire come siano gli estratti di “Depression Cherry” ad avere il merito di far viaggiare alto (più alto) i cuori riunitisi nell’ex Convento: così ci si abbandona tra una “Sparks” ed una “Space song” e dove una “Take care” accompagna “Wherever you go” ed una “Myth” per il saluto definitivo.
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