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ARGINE
Libera..mente, Roma, 9 aprile 2004, Roma, Venerdì Santo.

Il nostro capo sembra essersi dimenticato delle due ore di permesso che ci aveva accordato e quando finalmente riusciamo a fuggire dal posto di lavoro ci troviamo di fronte ad una città quasi paralizzata dall’imminente Pasqua, con processioni e cortei affiliati a Vie Crucis che ne intasano le strade. Fermi in macchina, cercando in qualche modo di arrivare al locale, non possiamo fare a meno di chiederci se questa volta ce la faremo ad assistere ad un concerto degli Argine, gruppo che da sempre abbiamo inseguito per mezza Italia e anche all’estero e che per strane congiunzioni astrali non siamo mai riusciti ad ascoltare. Immobili, aspettiamo che la coda dell’ultima processione scompaia e il nostro viaggio possa riprendere. La strada ricomincia a scivolare sotto di noi, inesorabilmente lenta, mentre il tempo sembra accelerare sempre di più e quando arriviamo al locale abbiamo una ventina di minuti di ritardo sull’ora di inizio ufficiale del concerto.
Per una volta almeno la scarsa puntualità con cui comincia la maggior parte dei concerti visti in giro gioca a nostro favore ed infatti abbiamo anche il tempo per un martini e quattro chiacchiere prima che Corrado e soci salgano sul palco.
Dinanzi ad un nutrito gruppo di fedelissimi ascoltatori, la musica degli Argine si spande a riempire la sala come uno stormo di rondini si leva al mattino seguendo il vento d’autunno: i limpidi accordi di una chitarra senza tempo si legano nell’aria alle melodie del violino di Alfredo creando la base di tutto quello che è il cosmos di Argine. Su questo tappeto musicale si stendono i suoni del basso e della batteria, come gemme preziose su un cuscino di velluto, racchiudendo in sé storie nascoste e suadenti, canzoni pervase di dolce poesia e malinconia cui l’atmosfera del locale, costruita su luci soffuse e tenui, si intona alla perfezione. In questo clima è facile lasciarsi trasportare dalla musica e quasi senza accorgercene ci lasciamo andare alle danze, abbandonandoci completamente a quanto sentiamo. Che si tratti di brani più vicini alle ballate tradizionali o composizioni dai ritmi più serrati e dinamici, la nostra anima non può non sciogliersi di fronte alla bellezza delle canzoni proposte e poco importa che l’impianto messo a disposizione del gruppo non si riveli adatto a gestire con semplicità la ricchezza dei suoni proposti, impedendo che ogni voce trovi il suo giusto equilibrio: quel che non giunge alle nostre orecchie lo sentiamo col cuore.
Dinanzi a noi scorrono le note di Urla, Come un servo da mantice, la splendida Memorie, autentica medicina per il nostro animo ferito, Von Aschenbach e gli inediti Radjodramma, Lamento funebre, Girotondo e altre ancora tratte sia dal nuovissimo “Le luci di Hessdalen” (sfortunatamente non acora disponibile) che dagli altri lavori in studio, in un unico sogno che ci rapisce e ci lascia dimentichi del tempo che passa, un sogno da cui nessuno dei convenuti sembra volersi svegliare. Inconsapevole della reale durata dell’esibizione (quasi cento minuti alla fine) e volutamente ignaro dell’organizzazione che chiede al gruppo di calare un metaforico sipario sulla scena per proseguire la serata con la notte danzante, il pubblico entusiasta continua a richiamare Corrado, Cecilia e gli altri sul palco, desideroso di abbandonarsi ancora – fosse solo per pochi minuti appena – al loro mondo. Possiamo così godere ancora di qualche inaspettata gemma, una canzone appena accenata per sola chitarra e voce e un’imprevista ed improvvisata versione di Rifrazioni, ideale conclusione di una serata che conserveremo per sempre in noi assieme alle nostre memorie più care, tra i ricordi di corse impazzite per viali deserti e foto ingiallite custodite in cornici di avorio.

Testo de:
i Lupi di Winhall

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