LEVINHURST
@ SPAZIO 211, Torino . 18 marzo 2010
Testo
by GIANMARIO
Foto
by SILVIA
Chi
sono i Levinhurst? La domanda può, infatti, non essere
così scontata se consideriamo che il leader Lol Tolhurst
è più famoso per essere stato nella formazione
originaria dei Cure, piuttosto che per la sua carriera post
Robert Smith.
Di
fatto, abbiamo già svelato l’arcano. I Levinhurst
sono una band fondata dall’ex drummer (e poi tastierista)
dei Cure e dalla consorte Cindy Levinson, autori di tre
lavori sulla lunga distanza.
La
nota di interesse cresce ulteriormente se andiamo a leggere
che nell’attuale line up vi è anche quel Michael
Dempsey che fu il bassista accreditato in “Three imaginary
boys”, primissimo gioiello di quel mostro sacro che si scrive
the Cure (e si legge Robert Smith).
Poco
da aggiungere, allora, a quella che si presenta come una
serata con tante aspettative, se non altro per i nomi in
cartellone. Non ci sorprende, invero, la location; stiamo
parlando dello Spazio 211 di Torino, ovvero uno dei luoghi
che da sempre si è caratterizzato per l’organizzazione
di eventi di primissimo piano e di notevole spessore (magari
nomi meno altisonanti, ma dall’indiscusso fascino underground).
Quello
dei Levinhurst (da notare che il nome del gruppo riprende
parte dei cognomi dei fondatori della band) è il
secondo tentativo per Lol Tolhurst di emancipazione dai
Cure.
L’ex batterista, infatti, quando era ancora nell’organico
del gruppo di Smith, fondò i Presence, gruppo che
non seppe, invero, durare più di una pubblicazione.
Dopo
anni di assenza (probabilmente passati a disintossicarsi
dall’alcolismo), Tolhurst, cacciato da Smith durante le
registrazioni di “Disintegration”, si trasferì a
Los Angeles e trovò moglie (oltre alla voglia di
rimettersi in gioco sul piano musicale). Quello dei Levinhurst
appare, allora, come un progetto volutamente più
maturo e, forse per questo, duraturo, se consideriamo che
il recente “Blue star” è stato preceduto da “House
by the sea” e dal disco d’esordio di “Perfect life” (in
effetti debole e assai poco ascoltabile).
L’accogliente
locale torinese si presenta stracolmo di interessati. Difficile
parlare di fan del gruppo. Oltre a qualche curioso, infatti,
lo spazio 211 è praticamente affollato da sostenitori
del gruppo di Crawley (eh sì, faccio un po’ di autocritica
anche io), intervenuti, per lo più, per toccare e
rivivere un po’ di quella storia dei Cure, almeno del suo
primissimo periodo.
Poco
dopo le 23.00, quando anche la band di supporto ha terminato
lo spettacolo, i Levinhurst fanno l’ingresso sul palco.
Notiamo subito che Laurence Tolhurst si posiziona alla batteria;
un ritorno, dunque, al suo primo amore (e come non ricordare
gli inimitabili colpi impressi nell’immortale “Pornography”:
un contributo per il quale non smetteremo mai di dirgli
grazie).
La
moglie e vocalist Cindy Levinson, elegantemente vestita
di nero, è al centro del palco, tra Eric Bradley
e Michael Dempsey, ovvero l’altra star della serata, presentatosi
con una cuffia scura che indosserà per tutto il concerto
(interessante notare come in scaletta ci sia quella “Jumping
someone else’s train” che fu l’ultimo brano in cui il bassista
compare quale membro dei Cure).
Il
calore del pubblico è subito immediato e sincero,
e la band appare serena nel proporre pezzi propri, alternati
a quelli del primissimo periodo dei Cure.
Tra
un brano e l’altro (a testimoniare che in questa formazione
è lui il capitano) è Lol Tolhurst a dialogare
con il pubblico e ad anticipare la canzone successiva.
Il
sound dei Levinhurst è piacevole e porta la giusta
atmosfera all’interno dello spazio 211; ci piacciono le
chitarre (stridenti al punto giusto) e l’antica sessione
ritmica riesce a regalare colpi di classe. La signora Tolhurst,
per contro, svolge il suo compito egregiamente, facendosi
apprezzare per un cantato quasi etereo e per una presenza
scenica dignitosa (a fronte di un’età non più
giovanissima).
Tra
i brani autografi che hanno lasciato maggiormente il segno
segnaliamo “Sargasso” e “Mau Mau” che riescono a portare
il suono della band vicino a certe corde in stile Cocteau
Twins.
Ma
(e come poteva essere diversamente) il pubblico, pur tributando
il dovuto rispetto alle canzoni dei Levinhurst, impazzisce
quando sono le canzoni dei Cure a salire in cattedra.
È
già dal terzo brano, infatti, che Tolhurst anticipa
ai presenti che la prossima canzone sarà legata al
suo passato: attesa nel pubblico e grande entusiasmo quando
partono le note di “Play for today”.
Molto
ben riuscita anche la cover di “Subway song” (per chi conosce
il pezzo, possiamo dire che non c’è stato l’urlo terrorifico
immortalato in “Three imaginary boys”), realizzata in maniera
più jazzata rispetto all’originale.
Dopo
l’esecuzione di “Another day” (sicuramente tra le più
belle del primo lavoro dei Cure), Lol Tolhurst dice che
adesso arriva il momento per “un altro modo”, iniziando
“Another way” che, tratta dal secondo lavoro del gruppo,
riceve la giusta e meritata dose di applausi.
Molte
altre canzoni dei Cure trovano spazio in questa serata:
da “10.15 Saturday night” e Boys don’t cry”, passando per
“Three imaginary boys” (Michael Dempsey ci indica che questa
sera i ragazzi immaginari sono quattro, mostrando il numero
con la mano) e finendo con “Killing an arab”.
È
evidente che in ogni brano dei Cure si sente la mancanza
della voce e della chitarra di Robert Smith (inutile pensare
il contrario ……… i Levinhurst non sono i Cure), ma in “killing
an arab” questa mancanza diventa addirittura un vuoto infinito.
Il cantato della Levinson che rimane monocorde e soave,
il brano che non si incattivisce sul finale ed un ritmo
che rimane troppo regolare, ci dicono come, a volte, non
sia facile “coverare” i Cure, neppure quando sul palco ci
sono due terzi di nobiltà.
È
proprio questo il rischio che corrono di fare i Levinhurst:
apparire come una cover band del gruppo di Smith. Il loro
show, peraltro, cerca di rispettare le diverse identità,
mantenendo in scaletta brani autografi, anche quando questi
sono accolti da un entusiasmo minore.
Il
calore del pubblico è, comunque, alto e sincero in
ogni momento del concerto, tanto da spingere i quattro a
salire sul palco per proporre nuovamente “10.15 Saturday
night”, (ultimo e sicuramente non previsto rientro in scena),
che mette la parola fine alla serata.
Un
concerto che ha convinto e che non è stato tristemente
nostalgico, ma vissuto con grande serenità e sincera
passione da parte di tutti.