IVASHKEVICH
(foto
by Ian)
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In
redazione ci arrivano parecchi promo di nuove band, ma sono
poche quelle che esprimono qualcosa di personale, e gli IVASHKEVICH
sono tra quelle. Siamo molto contenti d'intervistare questo
interessante e inconsueto progetto di dark wave rituale proveniente
dalla "Città eterna", che nel Febbraio 2011
ha rilasciato il suo mini-CD di debutto. Tieniamoli d'occhio
;)
Parlate
del vostro progetto musicale, come è nato, da chi è
composto e perchè avete scelto il nome IVASHKEVICH?
STEN:
IVASHKEVICH è un progetto che nasce dalla necessità;
una necessità interiore, dunque una necessità
viscerale. Dopo la rottura con Spiritual Front nel 2005, io
e IAN abbiamo avuto un lungo periodo di silenzio. Silenzio
inteso come chiusura e disinteresse verso tutto ciò
che significava pubblico, concerti, viaggi, tour, festival…
E’ durante questo periodo che è stato scritto ciò
che è andato a costituire il materiale primordiale
da cui ha preso vita IVASHKEVICH. IVASHKEVICH nasce da un
progetto preciso, meditato, ragionato in ogni suo aspetto.
La scrittura di IAN è spontanea, ovvio (come dovrebbe
essere ogni forma di ispirazione artistica); ma dietro IVASHKEVICH
c’è un’idea, un manifesto morale ed estetico; un programma
figlio di notti insonni trascorse ad interrogarci su quale
potesse (o meglio AVREBBE DOVUTO) essere la via. Una via che
va dell’uso rigoroso della drum machine, ai colori delle nostre
uniformi; dalla decisione di portare un manichino (anche lui
in uniforme) sul palco, alla scelta di lavorare agli arrangiamenti
per sottrazione (non usando sovraincisioni ad esempio). E’
molto italiano e molto romantico - e quasi sempre falso -
dire “noi non abbiamo programmato nulla a tavolino etc
etc…” millantare spontaneità come garanzia di
onestà intellettuale. Per noi non è così.
Non abbiamo bisogno di tali mediocri mezzi.
Da
chi è composto il progetto IVASHKEVICH… Siamo in tre:
Gianni IAN Puri (voce/chitarre) - padre del progetto,
autore di tutti i testi e del 90% delle musiche), Stefano
STEN Puri (pianoforte/synth/voce) e Giorgio FOLCO Felicetti
(basso elettrico). Provocatoriamente, nei credits del cd compare
un quarto elemento, Viktor Ivashkevich alle macchine. E’ il
nome del nostro manichino, ma anche di una persona reale:
foto by Irene De Marco
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VIKTOR
IVASHKEVICH era un bambino
che abbiamo conosciuto una quindicina d’anni fa; aveva credo
cinque o sei anni. Un bambino bielorusso che, nato nei pressi
di Chernobyl poco dopo il disastro nucleare conviveva - come
tanti altri bambini - con molti problemi di salute, legati
alle radiazioni (tiroide, difese immunitarie etc etc..). A
cio’ si aggiunge una storia di ordinaria povertà nell’Est
post-comunista, abbandonato a se stesso, e tanti racconti
di villaggi sperduti nella lontana Bielorussia, da parte del
nostro fratello adottivo, Viktor Korovaevich. VIKTOR IVASHKEVICH
era venuto in Italia per “respirare aria pulita, per far rigenerare
le proprie cellule”. Non lo rivedemmo piu’, non sappiamo che
fine abbia fatto. Per Viktor, l’esistenza è espiazione.
La vita una condanna. Viktor sconta una pena per un crimine
mai commesso. Per un peccato mai consumatosi. Nella sua persona,
abbiamo visto l’immagine dell’umanità in frantumi,
alienata, disperata. Un’umanità disumanizzata dalla
macchina, mostruosa e impietosa creazione a immagine e somiglianza
delle più tremende paure dell’uomo. L’innocente che
sconta una pena lunga un’intera esistenza, per una colpa a
lui sconosciuta. Per questo, è stato “IVASHKEVICH”.
Il vostro minicd mi fa venire
in mente le atmosfere dei film del neorealismo italiano, è
solo una mia sensazione? Cosa volete trasmettere agli
ascoltatori?
IV:
La nostra musica affonda le radici nella tradizione italiana,
nell'essere italiano. E il neorealismo è probabilmente
l'unica forma di cinema - che possa definirsi tale - che l'Italia
sia mai stata in grado di creare. Dunque, essere italiani
non può prescindere dall'essere neorealisti.
In
generale, non ci ispiriamo al cinema, non direttamente o volutamente.
Gran parte del cinema trae ispirazione dalla letteratura:
quando la musica, a sua volta, si ispira pesantemente ai film,
diventa un prodotto di terza mano, un “riciclo di un riciclo”,
e questo, considerando quanto spesso accade, cerchiamo davvero
di evitarlo.
IVASHKEVICH vuole trasmettere soltanto ciò che è.
Come una persona reale vuole trasmettere ciò che è.
Non a caso la parola IVASHKEVICH è un cognome. Non
crediamo nella musica come strumento di diffusione ideologica
o di un pensiero più o meno condivisibile; crediamo
piuttosto nella musica come rappresentazione. Nel nostro
caso, della Vita. E il neorealismo ha cercato di raccontare
la vita così com’è. Ammesso che sia possibile farlo.
I nostri testi raccontano l'uomo, il mistero della vita, il
dubbio, l'inconscio, la morte, Dio.
Ogni volta mettiamo in scena noi stessi e cantiamo ciò
che siamo.
In questo senso, i concerti di IVASHKEVICH, per noi, sono
emotivamente "devastanti" e allo stesso tempo purificatori.
Ecco… rendere l'intero pubblico parte di questa espiazione…
come una sorta di “confessione collettiva”. QUESTO è
il senso di ciò che facciamo.
Tutti i componenti dei
IVASHKEVICH indossano
in concerto e nelle foto una camicia rossa, perchè?
IV: Indossiamo tutti un'uniforme, manichino compreso.
L'aspetto estetico
è un elemento importante per noi. Nel teatro non troverai
mai un attore vestito senza criterio o con una pettinatura
casuale. In questo senso, la nostra uniforme (camicia rossa,
cravatta bianca, pantalone militare nero e anfibio nero) rientra
in un discorso tematico, dà forma e uniforma i testi
e il pensiero in una sola persona. Un desiderio di ritorno
dal Tutto all'Uno. Per noi sarebbe inconcepibile salire su
un palco con abiti ordinari o casuali.
La
camicia rossa è un rimando cromatico alla Bielorussia,
paese al quale siamo fortemente legati (più umanamente
che ideologicamente). PS: Ci teniamo a precisare che, nonostante
l'uniforme e la marzialità formale, ci dissociamo da
ogni riferimento o ideologia politica. La musica è
arte, la politica è altro.
Come mai la scelta della lingua
italiana per i vostri brani?
IAN: Apparentemente una domanda curiosa da porre a
una band italiana; tuttavia, è vero che oggi - in particolare
nella scena darkwave - è sempre più difficile
ascoltare qualcosa di italiano in italiano. Per noi è
stata una scelta naturale e consapevole allo stesso tempo.
L'italiano è la nostra lingua e dire "lingua" significa
la nascita di un popolo, significa identità collettiva,
significa poter dare forma ai propri pensieri in maniera corretta;
corretta nei confronti della struttura stessa dei pensieri,
nei confronti delle cose e del nome con cui le chiamiamo.
Oggi l'uso della lingua inglese è davvero inflazionato
e mi sembra che spesso sia solo un espediente per facilitare
la scrittura, colmare lacune compositive, o - peggio - mascherare
una totale inconsistenza contenutistica: fare in modo che
l'ascoltatore non colga l'aridità sostanziale (per
non parlare degli errori sintattici e/o ortografici.) di chi
fa musica per vanità e non per necessità spirituale.
Esistono sempre le eccezioni, è chiaro, ma il più
delle volte il cantato delle band anglofone nostrane è
paragonabile al modo in cui può parlare un extracomunitario
- poco integrato - in Italia. QUESTO uso della lingua inglese,
o francese (sic), di certo non rende il prodotto più
esportabile, o universale. Né - soprattutto - ci fa
onore.
Al di là di ogni polemica, la lingua italiana è
l'unica arma che può usare IVASHKEVICH. “Un poeta
può scrivere solo nella sua lingua, perché in
un’altra lingua, le sue parole, i suoi pensieri sono una cosa
morta.”.
foto
by Irene De Marco
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Avete
in progetto di far uscire un CD album?
FOLCO:
Chiaramente sì. Il nostro EP ha visto la luce nel febbraio
2011, ma alle spalle abbiamo due anni di lavoro (come IVASHKEVICH),
il che significa avere parecchio materiale. Esordire con un
EP ci è parsa la maniera migliore per rompere il ghiaccio,
considerando anche che, al momento, siamo senza etichetta.
L’album è in cantiere (e ci auguriamo che sia il primo
di tanti), il titolo (provvisorio) è “RESISTERE” e
- precisiamo - non conterrà alcun brano già
presente nell’EP. IVASHKEVICH EP non è un promo al
disco. E’ la nostra maniera di dire “eccoci”.
Avete registrato con Spiritual
Front "ARMAGEDDON GIGOLO", come vi siete trovati con Simone
Salvatori, e cosa ne pensate della sua svolta pop con il suo
ultimo album "Rotten Roma casinò"
STEN:
Simone è una persona che sa quello che vuole e da anni
porta avanti un discorso musicale che può piacere o
meno, ma di certo è personale; e questo va comunque
apprezzato. I continui fallimenti della miriade di “musicisti”
cloni che credono che per aver successo basti usare una sorta
di “ricetta Spiritual Front”, dicono molto; e la loro
stessa esistenza dimostra che un segno è stato già
lasciato.
A
proposito di Rotten Roma Casinò e di tutte le polemiche
lette ed ascoltate, sinceramente ho trovato il dibattito molto
sterile. A.G. era suicide pop come è suicide pop R.R.C.;
non riconosco questo drastico cambio di rotta di cui molti
parlano. Ci sono differenze, ovvio, e sarei falso e disonesto
se dicessi che non cambierei nulla di R.R.C e che io avrei
fatto lo stesso tipo di lavoro, ma questo non toglie nulla
al valore del disco. Un artista deve essere libero di percorrere
la via che desidera. L’importante è che la sua opera
sia espressione di una volontà e di una coscienza.
foto
by Irene De Marco
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IAN:
alla faccia di tutte le polemiche, trovo che DARKROOM
FRIENDSHIP sia in assoluto il brano migliore del disco!
STEN:
Comunque, al di là dei passati motivi di rottura, restano
enormi “affinità spirituali”, soprattutto tra me e
Simone; infatti stiamo lavorando insieme ad un nuovo progetto:
un album ispirato alla poetica di R.W.FASSBINDER, in cui Simone
darà voce alla mia musica (su cui ha scritto i testi).
Sarà qualcosa di completamente diverso e nuovo per
il mondo della darkwave: un progetto di VERA musica da camera,
tra il lied classico e il cabaret tedesco (quello autentico,
non quello millantato da alcune band di studentelli fuorisede
dell’ultima ora): niente vocine femminili lagnose (e stonate),
né pianoforti intimisti e zuccherosi. Io sarò
al mio pianoforte, Simone alla voce. Si aggiungerà
un quartetto d’archi e un’ensemble vocale.
In quali altri progetti musicali
avete partecipato?
FOLCO:
Veniamo da percorsi e formazioni completamente differenti.
Fatta eccezione per l’esperienza S.F. che ha visto insieme
IAN e STEN, abbiamo seguito (e continuiamo a seguire) strade
“solitarie e parallele”: io ho alle spalle una carriera come
cantautore (con due dischi all’attivo: “910” e “L’ALTOPIANO”);
IAN si è dedicato alle sperimentazioni con il suo strumento,
dividendosi tra musica, performance e arti grafiche (lui realizza
tutto l’artwork di IVASHKEVICH). STEN si è sempre mosso
su altri territori, nella musica antica, classica e contemporanea:
a parte la sua carriera come arrangiatore e compositore (nel
corso del 2011 dovrebbe pubblicare il suo primo album solista
per pianoforte solo, dal titolo - provvisorio - “NOVEMBRE”)
da due anni ha fondato un ensemble vocale (ENSEMBLE MYSTERIUM)
con cui si è posto l’ambizioso obiettivo di portare
la musica antica nella scena dark e neo folk.
Il vostro sound lo trovo molto
teatrale, come si svolge una performance live dei IVASHKEVICH?
IV:
Noi siamo su un palco, rivolti verso il pubblico. Il pubblico
è davanti al palco, ed è rivolto verso di noi.
Questo è il live: una messa, un rituale collettivo.
Questo è il teatro. Si, in questo senso siamo una band
teatrale e, come nel teatro, non c'è interazione diretta
tra attori e spettatori. Ma è proprio questo distacco
tra reale e rappresentazione che eleva la realtà e
rende reale la rappresentazione. Nel teatro lo spettatore
assiste in maniera emotivamente e spiritualmente attiva ad
un evento strutturato ed organico; allo stesso modo nei nostri
live seguiamo un programma preciso. Tutto ciò che accade
sul palco (la musica suonata, i video o le immagini proiettate)
esiste affinché si realizzi un rituale: la mimesi tra
noi e il pubblico; tra il pubblico e la nostra musica. Questo
non significa che siamo dei posers, che ce la tiriamo o quant'altro.
Significa fare ciò che vogliamo fare con professionalità,
serietà e soprattutto significa sintonizzare il proprio
spirito su ciò che significa IVASHKEVICH; noi ancor
prima del pubblico. Questo modo di lavorare significa per
noi LIBERTA’: libertà di vivere ogni nostro concerto
in maniera totale e totalizzante, passionale, spirituale,perché
no, anche dolorosa.
foto
by Matteo Rosco
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Sul
palco, come accennavamo prima, oltre a noi tre, c’è un manichino
(anche lui in uniforme) davanti alla drum machine: una batterista
virtuale per una batteria virtuale. Chiaramente è una
provocazione, ma anche un rimando al rapporto uomo-macchina,
realtà-finzione, vita-morte.
Di cosa parla il testo "La guerra
è finita?"
IAN: Prima di risponderti vorrei dirti che apprezzo
molto che tu mi abbia sottoposto questa domanda: denota da
parte tua una particolare attenzione alle parole e al sottotesto
davvero rara di questi tempi. E' un testo che ad una prima
lettura parla semplicemente della guerra e dello stare in
trincea. In realtà vuole rappresentare la vita dell'uomo
contemporaneo, l'eterno sentimento di solitudine, la paura
dell'altro e di se stessi, il dubbio come arma che ci fa mettere
in discussione ogni cosa fino a non riuscire a distinguere
se "la guerra" sia realmente finita o possa mai realmente
finire.
Non a caso, l’affermazione “la guerra è finita” diventa
- nell’esplosione del ritornello - una domanda: “LA GUERRA
E’ FINITA?” .
Ho
scelto la metafora della guerra perché la guerra è
l'evento drammatico e surreale che più si avvicina
alla vita reale. La guerra è un fantasma per la storia
italiana. Qualcosa che tutti conoscono e temono ma che "nessuno"
oggi ha mai visto realmente. Viviamo una condizione che
non riusciamo a vedere: l'esistere.
Vi ringrazio per la disponibilità
e vi lascio uno spazio aperto per parlare direttamente con
i nostri lettori, A voi la parola !
IV:
Ringraziamo di cuore tutta la redazione di Rosa Selvaggia,
i nostri fans e chi ci sostiene con passione. Invitiamo tutti
coloro che non ci conoscono ad assistere ad un nostro live
e più in generale a vivere i concerti: la musica vive
del live e il live della partecipazione attiva del pubblico.
Che
il mondo intero sia in disfacimento lo si vede: il quotidiano
apocalittico in cui viviamo ogni giorno è innanzi agli
occhi di tutti. In tale scenario, noi crediamo che ci sia
ancora una possibilità: in un momento in cui la discografia
è morta, in cui la musica mainstream è appannaggio
solo ed esclusivamente delle mafie mediatiche (neanche piu’
delle grandi discografiche), il mondo dell’underground ha
l’occasione di risvegliarsi, ha la possibilità di tornare
ad osare. Perché non c’è più nulla da salvare
e non c’è più nulla da perdere. Non si tratta di veicolare
messaggi. Si tratta di risvegliare le persone dal torpore
di anni di addomesticamento borghese. Crediamo che l’esperienza
forte di un concerto possa trasformare l’animo delle persone.
Possa farle sentire di nuovo vive. Metterle innanzi al proprio
essere, anche innanzi alle paure da cui fuggono da sempre.
Ecco… ci piacerebbe che una persona che ha partecipato ad
un nostro concerto, si riconosca diversa, rinnovata, arricchita
spiritualmente. Il che spesso significa anche riconoscersi
ferita. Risvegliare il dolore, le angosce, le paure, ricordare
il passato dimenticato o mai conosciuto. Abbandonare il torpore.
In questi anni sempre più oscuri, l'unica arma che
abbiamo per resistere è ESSERCI. Esserci significa
essere presenti. Fisicamente e spiritualmente.
Intervista
pubblicata il 20/04/2011