MARINA
ABRAMOVIC alias
Lady Performance a Bologna
testo
di Gabrydark
Foto
di Giancarlo Donatini
Grande ritorno a Bologna il 28 gennaio di Marina Abramovic
per presentare nell’Aula Magna di S. Lucia un film di 7
performance, da lei realizzate al Guggenheim Museum
di New York. Nell’occasione l’artista è stata
intervistata dal suo mentore professor Renato Barilli,
che nel ’77 la fece conoscere al grande pubblico all’inaugurazione
della Prima Settimana Internazionale delle Performance,
organizzata da lui e dai suoi collaboratori Francesca
Alinovi e Roberto Daolio alla Galleria D’Arte
Moderna di Bologna.
Ricordo
molto bene la sua performance, perché visitai
la Gam e per entrare bisognava passare tra i due corpi
nudi, l’uno di fronte all’altro, dell’Abramovic e del
suo compagno di allora Ulay.
Altrettanto
bene ricordo la mia reazione di sorpresa e d’imbarazzo, come
i risolini maliziosi o la serietà quasi pietrificata
ed innaturale dei molti visitatori che entrando sfregavano
contro il pene di lui o il seno nudo di lei.
In
effetti la performance, che Barilli definisce
una “ prestazione “, è realizzata dagli artisti stessi,
che mettono in campo il loro corpo per ore, spesso agendo
anche aggressivamente su di esso e suscitando una relazione
emotiva in chi guarda . Il rapporto artista- spettatore è
fondamentale e suscita un’empatia tra i due, per la quale
lo spettatore è fruitore ed ,attraverso le sue reazioni,
performer esso stesso. La performance perciò
è di per sé provocatoria, dissacrante e spesso
agìta su forme di autolesionismo, sofferenza fisica,
metafora di una realtà angosciante ed ansiogena.
All’apice
negli anni’80 la Body-art si è esaurita nel
giro di un decennio e proprio per questo l’Abramovic
ha voluto ricordare gli artisti più famosi ed omaggiarli
rifacendo attraverso il film con la regia di Babette Mangotte
alcune tra le loro performance più eclatanti.
Omaggi
a Bruce Neuman,Vito Acconci, Valie Export, Gina Pane e
Joseph Beuys, conclusi da due omaggi a se stessa, fra
cui l’emozionante e bellissima Lips of Thomas del 1978,
in cui con una lametta in momenti successivi s’incide sul
ventre una stella a 5 punte ed ad ogni taglio imbeve del suo
sangue una salvietta bianca che poi infilata su un’asta sventola,
come una bandiera di resa, mentre indossa una bustina militare
e sull’attenti ascolta una struggente melodia slava; quindi
infligge al suo corpo ulteriori sofferenze sdraiandosi su
una croce di ghiaccio e flagellandosi poi senza pietà
la schiena. Le lacrime le sgorgano spesso dagli occhi che
sembrano perdersi nel vuoto lasciato dalla fine della Jugoslavia
di Tito e dalle seguenti lotte fra le diverse etnie dei Balcani.
Un grido di dolore muto, ma di grande impatto emotivo, nasce
da quest’artista che ancora oggi , grazie alla sua forte personalità,
riesce a rendere viva e vegeta la performance, smentendo
quei critici che l’ hanno decretata superata e defunta.
Sono
trascorsi ormai 34 anni da quella prima performance
del ’77, ma la Marina Abramovic appare carismatica
ancora di più di quando era giovane e ci fa capire
che quando c’è la forza della creatività l’arte non
muore mai anche se la ricerca artistica deve e vuole andare
avanti ed oltre.