0.2 The Doors

Durante gli anni 60 altri artisti, come Screamin' Jay Hawkins, sono stati dei "dark della superficie", ovvero si vestivano in modo oscuro oppure usavano iconografie mostruose o mortuarie per i loro concerti o le copertine dei loro dischi. Non tanto nell'epoca del beat, così contrassegnata da allegria e "yé yé", unica eccezione forse l'ostentato satanismo dei Rolling Stones. Ma nella successiva epoca psichedelica, un celebre gruppo della bay area di San Francisco, i Grateful Dead, non solo aveva scelto un nome leggermente lugubre (i morti riconoscenti), ma facevano tutto un uso di iconografie mortuarie, teschi e scheletri per decorare i loro dischi e talvolta anche il palco. Ma erano più trovate spettacolari di una decorazione straniante ed inquietante che una vera convinzione interiore, infatti la loro musica si limitava ad un acid rock psichedelico ed un po' velleitario tipico dell'epoca (sebbene elaborando tra i capolavori del genere).
Il primo che programmaticamente si è messo a cantare la zona oscura dell'animo umano è stato un loro vicino, nel senso un californiano (originario però di Melbourne, Florida) e contemporaneo: Jim Morrison, con i suoi Doors. Definire i Doors un gruppo psichedelico sarebbe sia un'ingiustizia che una forzatura: Jim Morrison e compagni sapevano dare un'atmosfera così personale ad ogni loro composizione da renderla normalmente inclassificabile. Quello che lasciava disorientati, e ci si riferisce alle opere più riuscite del quartetto di Los Angeles, era l'incredibile numero di citazioni ed ispirazioni cui si riferivano e che sapevano rielaborare con estrema originalità: dalla psichedelia della west coast al canto western tradizionale, dal cabaret brechtiano ai vaudeville e ministrel show, dal blues nero più autentico agl'ipnotici canti degli sciamani pellerossa.
Il primo album omonimo, uscito nel 1967, uno dei loro capolavori assoluti, mostra subito l'impressionante armamentario di cui erano capaci. Il battito blues o ipnotico del batterista (Densmore), la folle pianola martellante o psichedelica del tastierista (Manzarek, che curava anche le parti di basso), la sinuosa chitarra ora onirica ora spagnola ora orientaleggiante di Krieger, in brani ora beat, ora pop, ora di una psichedelia quasi progressiva. Quello che più ammaliava però era la voce calda e trascinante di Jim ed i suoi testi così poetici ed insieme così profondi, a metà strada tra la tragedia greca e la psicanalisi freudiana.
Il capolavoro del disco sono certamente gli 11 allucinanti minuti di The End, il brano finale, certamente una delle prime canzoni dark ad essere state scritte. Ritmo lento, battito ipnotico, contrappunto di chitarra mistico e sinistro insieme. "Questa è la fine, la mia unica amica, la fine", comincia Morrison, con il suo recitar cantando, e la "canzone" perde ogni struttura, ogni riconoscibilità. La musica si comprime e si dilata, arriva a rarefarsi fino a scomparire per poi esplodere in una feroce sarabanda disarticolata ed arcana. I testi parlano di angoscia, di incubi, di un complesso di Edipo che è minaccia costante tra deliri lascivi e blasfemi versetti biblici. La danza si fa vorticosa, il delirio avanza e tutto viene riassorbito in un turbine che può solo ripiegarsi su se stesso: sull'ineluttabilità della fine.
Dopo questo capolavoro l'arte di Morrison e dei Doors ebbe un andamento purtroppo tipico di molti gruppi rock, soprattutto quando cadono vittime del grande inganno che li vuole consumatori smodati di droghe. Il loro secondo LP, Strange Days, uscito l'anno dopo, è musicalmente persino superiore al primo: i ragazzi hanno le idee più chiare ed hanno anche imparato a suonare meglio. Tra perle pop (Hello I Love You), preziose ballate (People are Strange) e gioiellini psichedelici (la notturna, appunto, Moonlight Drive), infilano un altro paio di pezzi che, secondo la nostra definizione di cui sopra, possono essere classificati come affini al dark.
Horse Latitudes
è un allucinante monologo psicotico, un incubo prima sussurrato poi urlato sulla metafora del naufragio (quindi del fallimento nella vita), accompagnato da strumenti stridenti e distorti che per la prima volta annullano ogni ricerca armonica.
When tha Music's Over
, invece, sembra quasi essere la seconda parte di The End. Brano finale, molto lungo (altri 11 minuti), delirante e mutante come quello. L'atmosfera, sebbene oscura e psicotica, risulta però meno inquietante ed opprimente, in qualche modo più rilassata ed anche più disincantata. Jim Morrison ormai è un profeta che, distaccato, commenta sereno e amareggiato le miserie del mondo.
Dopo questo secondo capolavoro, però, i Doors non riuscirono a ripetersi. Assemblato forse un po' troppo in fretta, il successivo Waiting for the Sun
risulta un disco fiacco, incompleto, raramente all'altezza dei primi due album. Anche il "lato oscuro", così magistralmente cantato da Morrison in The End e When the Music's Over, qui viene quasi trascurato o perlomeno relegato al ruolo di superficie musicale depressa, quasi lugubre, di certi brani. Ci si riferisce a The Unknown Soldier, pezzo "nobile" e antimilitarista, ma lievemente pretenzioso e velleitario, con tanto di fucilazione in diretta, e Yes the River Knows, con la struttura e le armoniche della semplice ballata, ma cantata in tono decisamente funereo.
Dopo questi ultimi sprazzi di oscura lucidità i Doors hanno dato il peggio di sé in un album, The Soft Parade, brutto e mal arrangiato. Morrison cominciava a perdere la voce e gli abbondanti (ed orribili) arrangiamenti per fiati riuscivano solo a coprire i vaniloqui di un tossico rimbambito e nevrastenico. Lievemente meglio, ma troppo poco, risultò essere il successivo Morrison Hotel, il più blues ed hard rock del gruppo. In entrambi questi dischi, occasionalmente, Jim tentava ancora il suo registro vocale di basso/tenebroso, ma era pura superficie, la copertura plastica alla loro tragica mancanza di idee.
La vena sembrò tornare ai Doors con il successivo L.A. Woman, uscito nel 71 e ultimo per la preziosa voce (e l'insostituibile sensibilità) di Jim Morrison. Qui il cantante/sciamano regala l'ultima perla di psichedelia dell'oscuro: Riders on The Storm, un brano lento e profetico, molto d'atmosfera (con effetto di temporale di sottofondo) e con un piano dimesso in scala calante che segna la tristezza e la solitudine dei "cavalieri nella tempesta".
La repentina morte del cantante/poeta/performer ne consacrò il mito. Egli fu il primo che non solo cantò al grande pubblico, ma che proprio visse sulla sua pelle, il tormentoso delirio della vita, l'affascinante mistero della fine.

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