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Diamanda Galàs
@ Auditorium di Milano, 11 Settembre 2011

testo by Brian K

“La Galàs? Uhmps, ma come fai ad ascoltare ancora quella roba? E poi diciamocelo, negli ultimi dischi si è proprio sputtanata, eh? Non riesce più a fare le cose allucinanti di quand’era giovane!”. Ecco più o meno la risposta che ho ricevuto da parte di (quasi) tutti gli amici invitati ad assistere a questo evento culturale imperdibile… Oh, tutti uguali, eh? Come se si fossero messi d’accordo!
Ok va bene, ma tu, tu che la giudichi, cos’avresti fatto?
Domenica 11 settembre 2011, pubblico all’Auditorium per fortuna decisamente numeroso, poco dopo le ore 21 lei, la divina, la serpenta (come ama definirsi) fa il suo ingresso in scena. Non somiglia alle sue tante foto che girano in rete, a essere sinceri non somiglia molto nemmeno a se stessa da giovane. Una timida signora sotto la sessantina, solo leggermente appesantita. Dove sono i musicisti? - tutti si chiedono – ma invano. Forse arriveranno più tardi. Dopo un timido saluto si siede al piano, un imponente Steinway & Sons a coda.
Qualche nota e poi… giù i brividi! È veramente incredibile come basti la sua sola presenza a creare un’atmosfera unica, spaventosa, dalla tensione insopportabile. Il suo stile al pianoforte è fantasioso e percussivo, vorticoso e invasato (avete presente il piano che accompagna Mercy di Nick Cave?), la sua voce unica. Cioè, davvero… chi vi scrive è un mediocre cantante sulle tonalità baritonali (quindi prende anche qualcosa del basso) o tenorili corte. E ovviamente non mi dava fastidio che lei fosse un soprano leggero migliore di me, o anche un mezzosoprano, ci mancherebbe altro! Così com’è altrettanto ovvio che anche come contralto non ci sia partita (e siamo a 3 tonalità). Poteva cominciare a rugarmi il fatto che fosse un tenore 1000 volte migliore, ma quando ho visto che mi superava anche come baritono, eh no, lì la cosa ha cominciato ad essere umiliante! Per fortuna che sulle note estreme di basso tendeva a sparire, se no chiamavamo il Guinness dei Primati e facevamo prima! (a parte il fatto che in ogni caso ne meriterebbe la presenza ad honorem ;)
Lo spettacolo che sta portando in tournée mondiale si chiama The Refugee: si tratta di una serie di cover, scelte fra le più intense e toccanti d’ogni epoca e cultura, unite da un unico tema, quello del profugo, dell’uomo in fuga, o dell’outsider in genere. Giudicati, condannati, costretti all’esilio, al silenzio, alla morte civile (quando non fisica). Il genocidio dei greci in Turchia, il dramma dei gitani, le tribù nomadi dei nostri giorni. Gli autori sono celeberrimi (Jacques Brel) o per noi perfetti sconosciuti, soprattutto greci, i brani normalmente popolari, o tradizionali, alcuni d’autore (uno addirittura tratto da Cesare Pavese!), tra i quali certuni d’una melodia un po’ stucchevole e forse, secondo il parere di chi scrive, meno riusciti.
Uno solo era interamente suo, Exo Yunanly! (Greco, Fuori!) e lì ha dato pieno sfoggio di tutta la sua impressionante ed inimitabile arte: 3-4 ottave di urli estremi da invasata, sovracuti lirici, grida da strega, deliri da pazza, gemiti da moribonda, borborigmi da indemoniata, strilli da torturata, doppi toni da sciamana, vocalizzi da aliena, più tutta una serie di sonorità che ancora cercano un nome. Davvero, lei è l’unica con una voce talmente dotata, talmente “mostruosa” da essere in grado, col solo aiuto discreto e occasionale di un riverbero, di creare suoni non previsti dall’Onnipotente per la vocalità umana!
L’effetto sulla psiche di chi ascolta è di annichilimento assoluto. Ho provato a ripassare nella mente le artiste più o meno consapevolmente citate e ampiamente superate dal suo canto, quando quel suono che non aveva nulla di terrestre poteva dirsi “canto”: Billie Holiday, Maria Callas, Aretha Franklin, Janis Joplin, Nico, Meredith Monk, Tina Turner, Lisa Gerrard, Sainkho Namtchylak e chissà quante ne sto omettendo! Scusate il francese, ma tutte, una dietro l’altra in fila, potevano farle una pippa (la Callas stringerle la mano dicendole “sorella!”, ma solo sulla modalità lirica). E i musicisti non si sono mai visti, ha tenuto tutta la serata lei, fino alla rarefatta e tenebrosa The Desert.
Comico-paradossale il momento in cui, riarsa dopo due/tre brani, ha chiesto dell’acqua: nessuno nel teatro si è premurato di portargliela. Lei l’ha chiesta ancora, ma niente. Alla fine di un pezzo, seccata, si è alzata per prenderla da sé, fra gli insulti che gli astanti cominciavano a gridare al personale dell’Auditorium. Lei è tornata con una bottiglia proprio nel momento in cui uno del pubblico le stava generosamente offrendone una sua, prontamente accarezzato dalla nostra, e in quel mentre una spaventata ragazza dello staff ne ha portate altre, fra fischi e ingiurie. “Non mi è mai successo di dovermi procurare l’acqua da sola”, ci ha tenuto a precisare, in inglese.
Poi ha ricominciato, concentrata, presissima, quasi in trance. Per riparlare di un personaggio già citato, nel 2005 (se non vado errato) nello stesso luogo vidi Nick Cave (per la serie: “ex tossici marci che, tramite il dark, arrivarono a cambiare la storia della musica”;). Bravo, per carità, a tratti sorprendente, accompagnandosi al piano e da due musicisti, tra i quali il sempre più funambolico e delirante violino di Warren Ellis. Ora, Cave è un artista consumato. In quell’occasione ha esplorato diversi umori, per carità, spesso è stato drammatico e intenso, ma più spesso gigioneggiava, ironico e beffardo, sicuro della sua tecnica. Diamanda no, lei non gigioneggia mai, lei c’è sempre fino all’ultima molecola, totalmente presa, veramente posseduta dal demone della sua musica e dal dramma ineluttabile, indefettibile che narra. Unico difetto di una simile proposta artistica, se proprio è necessario individuarne uno, è nel sovradosaggio emotivo: non si può interpretare con un’intensità simile, sovradimensionata, brani già di per sé tristi o malinconici. Ne risulta talvolta (ma per fortuna raramente) un eccesso di enfasi che può arrivare a scivolare nella comicità involontaria.
Resta il dubbio di uno spettacolo di cover. Ma tu che la critichi, davvero, cos’avresti fatto? Al posto suo, intendo, con la consapevolezza d’essere dotato della voce più straordinaria del secolo (dovrei dire del millennio? In compagnia comunque della buon’anima di Demetrio Stratos, non a caso anch’egli greco), e forse, ammettiamolo pure, di avere arrugginito un po’ il genio creativo giovanile, che cos’avresti fatto? Saresti rimasto a casa, purista nella torre d’avorio, vivendo di allori e vecchie glorie? O saresti diventato un fenomeno da baraccone, speculatore spregiudicato, capitalizzando commercialmente un simile dono così unico?
Lei no. Lei ha posto una dote smisurata al servizio dell’umanità, per parlare dei suoi eterni dolori, per renderla consapevole dei suoi figli più sfortunati, dei rifugiati, dei poveri, degli afflitti. Lei ha messo tutta se stessa nel cantico eterno della sofferenza terrena, ineluttabile nella nostra natura di corpi materiali in un mondo dialettico, con un talento in grado di trasfigurarla in nuova coscienza.
Per chi ci arriva, chiaro. Per gli altri è stato uno spettacolo tanto suggestivo quanto sconcertante.

Lista dei brani:
Amsterdam (Jacques Brel / G. Jouannet)
Anoixe Petra (Lefteris Papadopolous / Mimis Plessas)
Fernond (Jacques Brel / G. Jouannet)
De La Monlanas (anonimo) (resa celebre da Germaine Montero)
Exo Yunanli! (Greco Fuori!) (testo di Diamanda Galàs in turco e greco, musica di Diamanda Galàs)
In Despair (C.P. Cavafy / Diamanda Galas)
Lament for Marmara (anonimo, dalle canzoni dei rifugiati greci della Pontide, pubblicato dalla municipalità di Kalamaria)
La Tirana (Curet Alonso)
Mannish Babbik (Mohamed Abdel Wahab)
O Prosfigas (The Refugee) (Bizanis / Petridis)
Si la Muerte (Miguel Huezo Mixco / Diamanda Galas)
Ta Aeroplana (Dionysis Savvopoulos / Sotiria Bellou)
Ta Fila Sou Eina Fotia (Mohamed Abdel Wahud / Manolis Angelopoulos)
Adattamento di Wahab in greco di Angelopolous da Enta Omri, che lo scrisse per Own Kalsoum
Ter Vogormia (Marar Yekrnalian / Diamanda Galas)
The Desert (Adonis [Ali Ahmad Said] / Diamanda Galas)