2.7 Joy Division – singoli e morte

Per colmo del paradosso succede che spesso, per un gruppo rock, il tanto agognato successo rappresenti più una sventura che una benedizione. Figuriamoci per un gruppo come i Joy Division, che il successo non l’aveva mai cercato!
Gruppuscolo assolutamente underground, addirittura secondario rispetto al genere underground per eccellenza, il punk (ricordiamo che nacquero nel ‘77), abituati ad essere fraintesi se non totalmente ignorati. Dopo i loro primi prodotti discografici, l’Ep An Ideal for Living e la coppia di brani Digital e Glass, si ritrovarono a suonare a Londra davanti ad una trentina di persone. Ma era solo l’ottobre del ‘78 e le cose più importanti dovevano ancora succedere.
Certo, la loro evoluzione artistica ha avuto il grande, l’enorme merito di saper reinterpretare in chiave punk tutt’una tradizione musicale, soprattutto americana, di musica funerea e per perdenti. Più volte accostato a Jim Morrison, Ian Curtis in realtà non aveva nulla del carisma dello sciamano losangeleno, ma bensì la depressione cosmica dei neri del blues, o dei grandi cantautori (bianchi) Nick Drake e Tim Buckley. Se proprio dev’essere giudicata solo la tonalità della sua voce, allora il paragone più calzante sarebbe con Leonard Cohen, così umbratile e “negativo”.
Sì, grandi meriti, ma nessuno poteva aspettarsi che un disco come Unknown Pleasures, sebbene fosse un capolavoro epocale, col tempo potesse portasse a simili risultati: vendite stupefacenti (per l’ambito underground), concerti stracolmi di gente in delirio, giornalisti in adorazione (come Chris Bohn che nel gennaio dell’80 li ha definiti “maestri dell’oscurità gotica”) su riviste i cui lettori concordano perfettamente, come nel reader’s poll di Sounds, in cui sono stati votati l’8° miglior gruppo rock di sempre.
Troppo, decisamente troppo per un gruppo di “signori nessuno” cui garbava rimanere tali. Troppo per Bernard Albrecht, chitarrista schivo e introverso, troppo per la sezione ritmica formata dal diffidente e rissoso Peter Hook al basso e dal “marziale” Stephen Morris alla batteria. Troppo per il nervoso e debole Ian Curtis, che per il peso crescente delle responsabilità tornò vittima di fortissimi attacchi di epilessia. Non fu forse in seguito a questa sua malattia nervosa che compose un capolavoro come She’s Lost Control?
Il 15 settembre del ‘79 un attacco fu visibile a tutti al programma Something Else, in onda sulla BBC2. Poi il 29 dello stesso mese, di spalla ai Teardrop Explodes, mentre Julian Cope si stava ancora esibendo, un'improvvisa crisi epilettica mise fuori gioco Curtis; che tuttavia volle ugualmente portare a termine la serata. La successiva lunga tournée di spalla ai Buzzcocks, poi, benché piena di soddisfazioni (i quattro riscossero più successo del gruppo titolare), minò definitivamente la delicata salute del cantante-genio.
Per un po’ il gruppo si rinchiuse in sala d’incisione. La sala era un ambiente ideale per quattro musicisti così introversi: Ian Curtis poteva meglio riflettere, meglio guardarsi dentro e comporre le sue desolate liriche pregne di una claustrofobica amarezza. E gli altri potevano maggiormente assecondarlo con le melodie più cupe che fossero in grado di comporre. In realtà non era sempre così: la musica dei Joy Division era normalmente movimentata, danzabile o arrabbiata. Solo occasionalmente i quattro sprofondavano in inediti abissi di cupezza senza ritorno, componendo però dei capolavori assoluti e suggellando così le coordinate di un intero genere. Tra il novembre-dicembre del ‘79, la fine di gennaio dell’80 ed il mese di marzo dello stesso anno, il gruppo praticamente compose e registrò tutto il rimanente del suo scarso repertorio.
Ma si è andati fuori tema, in un paragrafo dedicato alla produzione discografica di singoli, per cui avanti: alla fine di ottobre del ‘79 uscì il loro nuovo 45 giri, Transmission/Novelty. Il primo brano, iniziato quasi in sordina dal basso di Hook, era un post-punk frenetico, ben contrappuntato dalla chitarra su due giri di accordi. Faceva la sua comparsa il sintetizzatore, strumento molto funzionale alle loro atmosfere. Il grido «dance dance dance, to the radio» suggellava uno dei successi maggiormente ballabili del combo, senza che però fossero scesi a compromessi con il mercato.
Un inizio più atmosferico avrà il retro, Novelty, che però presto, grazie ad una fragorosa rullata di timpano di Morris, tornerà su un tempo un po’ frenetico anch’esso. Anche qui la chitarra ha un’estrema importanza e manca il sintetizzatore: forse un errore, visto che la chitarra, con il suono selezionato, “riempie” poco la gamma quando rimane sola. Un bel brano con voce minacciosa, ma certo non un capolavoro.
Il 26 novembre una John Peel session, e va bene così. Nel gennaio dell’80 altri consensi da parte della critica: il New Musical Express segnalava Unknown Pleasures terzo miglior Lp del 79, dopo Metal Box dei PIL e Fear of Music dei Talking Heads. E scusate se è poco. In marzo altre registrazioni e altri concerti, con critiche contrastanti. Certo la strana fissità del loro non-show infastidiva, come il loro essere radicalmente antidivi o i movimenti meccanici e sgraziati di Curtis. Le recensioni, tuttavia, furono quasi sempre positive.
Ma marzo fu un mese fondamentale per due motivi:
1) Uscì uno stranissimo 45 giri per la Sordide Sentimental, oscura etichetta francese. Il titolo era Licht und Blindheit (luce e cecità, in tedesco), con una tiratura fin troppo limitata ed all’interno un opuscolo con uno scritto sui rapporti fra musica ed arte figurativa, firmato da Pierre Turmel. Il 45 giri piazzava decisamente il gruppo nel melieu gotico-romantico, forse con un’eccessiva enfasi retorica, però i due brani erano tra i loro capolavori: Atmosphere sul lato A, cominciava con una maestosità di tastiere e rullate di tamburi. Il basso e la batteria scandivano una melodia triste e molto suggestiva, capace di scendere nelle profondità dei silenzi interiori. Uno dei loro massimi, a quel tempo il brano con cui aprivano tutti i concerti.
Completamente diversa ma non meno bella (e nel lungo periodo non meno importante) Dead Souls, sul lato B: uno dei loro brani più punk ed aggressivi. Una buona scarica di adrenalina che esorcizzava il tema della fine con un nuovo incubo lugubre («they keep calling me»).
2) La notte del 4 marzo Tony Wilson aveva dato a Ian Currtis un “greatest hits” di Frank Sinatra, col consiglio di ascoltarlo attentamente, cosa che puntualmente ed incredibilmente accadde. Il giorno dopo il gruppo era in sala d’incisione e da quegl’improbabili ascolti nacque il loro brano più assurdo, ma di maggior successo commerciale. Si trattava di Love Will Tear us Apart, dal facile tempo in 4/4 da discoteca, con sintetizzatori facili ed un po’ plasticosi e melodia vocale molto romantica. Lì per lì si decise però di non pubblicarlo.

I primi di aprile furono forse i giorni in cui il gruppo conobbe il maggior successo di pubblico: tre date gestite dalla Factory al Moonlight Club di Londra, una delle quali registrata, dove i quattro furono in assoluto il gruppo più acclamato dell’etichetta discografica. Fu a causa loro che tutte le serate, non adeguatamente pubblicizzate, registrarono comunque il tutto esaurito. Eppure la serata del 4, non solo lì al Moonlight ma soprattutto poco prima al Raimbow Theatre dove si erano esibiti come spalla agli Stranglers, ripresentò tutti i problemi di Jan Curtis: attacchi di epilessia durante la performance, sfinimento precoce ecc. Problemi che da allora non smisero più di tormentare il già abbastanza cupo e depresso cantante.
Dopo aver girato il video per Love will Tear us Apart, i quattro provarono una mossa alquanto azzardata: regalare un 45 giri a chiunque ne avesse fatto richiesta. Inizialmente stampato in 25mila copie, si trattava di un flexy-disc con tre brani: Komakino era uno stranissimo pezzo molto nervoso e metropolitano, con un drumming pulsante e scomposto e strane assonanze western (al di là di ogni prevedibilità, incredibilmente imitate negli anni a venire). Una nevrotica danza giapponese, metafora del disagio europeo contemporaneo. Al confronto gli altri due brani strumentali, Incubation ed And Then and Again, sembravano solo riempitivi semplici ed irritanti (soprattutto il secondo, così facile e danzereccio). L’iniziativa conobbe un tale successo che la Factory dovette subito ristampare il disco.
Ma intanto la situazione stava rapidamente degenerando: dal vivo Ian Curtis non ce la faceva più. Il gruppo era costretto o ad annullare le serate o a far cantare Hook oppure a vedere il loro cantante stramazzare al suolo dopo una crisi. Bisognava fare qualcosa, Ian aveva un assoluto bisogno di riposo, anche se il gruppo non sembrava voler mollare, proprio ora che il successo sembrava arridere come non mai. A fine aprile la rivista “Zig Zag” proclamerà i Joy Division “quinto miglior gruppo inglese dell’anno”, nono come performance dal vivo, ancora quinto Curtis come cantante e Love Will Tear us Apart la seconda miglior “canzone non ancora uscita”. Era fatta: un successo sempre crescente (oltre ad una fortissima influenza culturale) stava portando il gruppo fuori dall’underground, nell’empireo musicale inglese ed internazionale. Una tournée americana avrebbe presto fatto seguito.

È vero che Deborah, la moglie, fu mandata a casa dai genitori? Eppure fu lei stessa che, quella mattina del 18 maggio, troverà il cadavere di Ian Curtis, impiccato nel bagno della loro casa di Macclesfield. Una sola nota: «In questo momento l’unica cosa che desidero è morire… Non ce la faccio più ad andare avanti». Il resto fu solo sgomento. Che, tuttavia, lo consegnò al mito.
Intervistato in merito, Bernard Albrecht dichiarò: «Ian non riusciva a reggere i suoi problemi, che erano più o meno quelli che abbiamo tutti… Lui provava ad affrontarli, ma non ci riusciva… Ci sono molti aspetti diversi in una persona, molte sfaccettature, molti chiaroscuri ed io non riuscirei a descrivere la complessità della personalità di Ian, neppure se ci provassi per un giorno intero. Oltretutto Ian Cortis non era un tipo “strano”, anzi era una persona normalissima, come chiunque altro, sebbene fosse molto sensibile… Molti riescono a manifestare le proprie emozioni, ma lui proprio non ci riusciva. O forse ci riusciva solo nei suoi testi».
Questo fu il momento più drammatico della storia del dark. Aggiungere qualsiasi parola, a questo punto, sarebbe perfettamente inutile.

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